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Ogni giorno, purtroppo, l’attualità fornisce nuovo materiale alla mala giustizia.
Come se non bastasse ciò che è causato dal male “attivo”, cioè tutti quei reati che sono compiuti, in particolar modo quelli che si indirizzano alla persona (che, a mio avviso, sono da considerare i più gravi, perché ogni ferita – fisica od emotiva – inferta ad una persona, sarà sempre peggiore, dal punto di vista morale, di qualunque truffa o reato ai danni di qualche bene materiale, per quanto grande possa essere). Partendo dal presupposto che ogni persona è unica, essa possiede in modo naturale ed imprescindibile un valore assolutamente incalcolabile, che è – conseguentemente – maggiore di qualunque valore esistente in qualsivoglia bene materiale, qualunque esso sia.
Tuttavia, c’è una cosa che va a braccetto col valore dell’uomo, in quanto tale. Croce e delizia dei pensatori di ogni secolo e luogo, ha arrovellato i cervelli di tanti pensatori fino al risultato di non aver trovato ancora – ad oggi – una soluzione che possa dirsi definitiva. A che mi riferisco? Al tempo? Prezioso, misterioso, legato a doppio filo al percorso dell’uomo, ma ancora, sostanzialmente inconoscibile, tanto che darne una dedizione risulta quasi impossibile ancora oggi.
Credo, che, anche attualmente, la migliore risposta resti quella di S. Agostino:

«Che cos’è il tempo? Se non me lo chiedi lo so, ma se invece mi chiedi che cosa sia il tempo, non so rispondere.» (Agostino)

e “temo” (perché ritengo sempre una grande vittoria il progresso, in ogni campo del sapere, e vi guardo sempre con speranza ed ammirazione) possa rimanere tale ancora a lungo.
Tuttavia, la sua preziosità ci interpella in modo pressoché quotidiano. Perché è vero che «per quanto si dia da fare», nessuno «può aggiungere un’ora sola alla sua vita» (Mt 6,27): è una constatazione, talvolta dolorosa e avvilente, ma – semplicemente – realistica, perché nessuno può sentirsi così sicuro di dire che gli accadrà domani, nonostante ci ostiniamo a fare programmi continui, a breve e lungo termine, come se tutto dipendesse da noi o fosse interamente nelle nostre mani. Basta ancora meno di una disgrazia, solo un semplice imprevisto a rinnovarci la memoria e ricordarci che non possiamo stabilire tutto noi: determinati dettagli ci sono imposti e a noi non rimane che la scelta tra accoglierli e combatterli. Ma fare guerra alla realtà si rivela oltremodo improduttivo: un’impari spreco di forze e di risorse, che rischia di tramutarsi in una gigantesca, quanto inutile, battaglia contro mulini a vento che non possono essere cambiati.
E di questo valore così difficile da sondare ma anche così profondamente immerso nel sentire dell’uomo troppo spesso ci dimentichiamo. Perché nessuno fa caso veramente cosa comporti perdere dieci anni della propria vita, o addirittura, l’intera propria vita di libertà, per un errore. Uno sbaglio di persona. Una considerazione affrettato. Un calcolo errato. Troppo peso dato agli indizi e troppo poco alle prove. Basta poco, forse niente a tramutare per sempre la vita di un innocente in un inferno.
Perché, da quel momento, senz’alcuna colpa commessa, la sua vita si riempirà di rimpianti: quei primi passi che non avrà potuto vedere, quel nipotino che potrà conoscere solo in foto, quelle tenerezze centellinati in pochi, fugaci momenti rubati all’alienazione dal mondo la cui vita scorre veloce, imperterrita, implacabile, senza sosta. Con la sensazione di essere in un time out forzato e, per di più, senz’alcun motivo. Tu sei fermo e guardi gli altri giocare, correre. Hai le gambe ma non puoi usarle, hai la vita ma ti sembra che stia scolorendo di fronte ai cambiamenti di cui non puoi essere parte. Se sei fortunato, dopo dieci o quindici, il caso si riapre, qualcuno si accorge dell’errore, si scoprono nuove piste, ci sono nuove indagini e magari quelle porte si riaprono. Come in uno scherzo di cattivo gusto.
Ma tutti quegli anni spesi dietro le sbarre, mentre la vita continuava a scorrere, chi li restituisce? È forse possibile quantificare il valore della perdita per diversi anni oppure per sempre del calore della propria famiglia, della dignità, del rispetto, dell’autostima, della speranza, della fiducia nella giustizia?
D’altro canto, c’è pur sempre il rovescio della medaglia. Quando la giustizia fa il proprio corso, il colpevole è catturato, l’omicida condannato, il misfatto potrà mai essere riparato? Sicuramente non tutto. Il maltolto può essere restituito. Ma i morti non risorgono, certi danni fisici rimangono cicatrici indelebili e determinate ferite nell’anima lacerano gli angoli più remoti della coscienza fino alla fine dei giorni. Serve quindi, il carcere a vita, o, peggio, la pena capitale? Evidentemente, secondo questa prospettiva, no. È assolutamente inutile.
L’unica modalità che può rendere socialmente apprezzabile la detenzione è che si possa cambiare chi ha sbagliato. Che possa uscirne diverso. Se la detenzione può esser un deterrente contro la recidiva, allora è una vittoria. Perché significa dare speranza, infondere fiducia e stringere davvero il cappio al Male, invece che allargare il cerchio, come assicura ogni spirale di violenza.
Punire il colpevole non assicura giustizia, neppure privare il colpevole della propria vita. Appunto perché non rende giustizia, dal momento che non è un provvedimento in grado di restaurare la situazione precedente al misfatto compiuto. Se da un lato è comprensibile l’umana necessità di vedere che la colpa sia punita, resta l’amarezza che non tutto si aggiusta. Nessuna vita è tornata indietro, alla cattura dell’assassino.
C’è di più. Di fronte al fatto, sempre presente, che perfino l’amministrazione della giustizia possa sbagliarsi ed ottenere addirittura l’assurdo di incarcerare un innocente, lasciando a piede libero un colpevole, quali garanzie ci rimangono?
La realtà con cui ci troviamo a fare i conti quotidianamente è che, nonostante gli sforzi (spesso davvero sinceri!) di trovarla, la giustizia umana ha falle enormi e si trova inadeguata di fronte alla banalità del male, che ci accerchia da ogni parte in modo ineludibile.
È proprio di fronte a questa constatazione, che comprendiamo che solo la trascendenza della misericordia non sbaglia un colpo. Pur peccando (impunemente e indistintamente) per troppa grazia.
La misericordia copre ogni colpa del cuore pentito, per questo è capace di rimedi che alla giustizia sono ignoti. Va incontro al peccato con solerte compassione, pur condannando l’errore. Riconosce l’uomo in ogni persona e sa vedere la meraviglia originaria di Dio nell’atto creativo con cui essa è stata chiamata alla vita e all’amore. Si tratta di un atto del cuore che fa assomigliare a Dio perché solo se guardiamo la realtà cogli occhi di Dio riusciamo a scoprire nuove strade di ricostruzione che possono allacciare nuovamente i fili delle relazioni, anche quelli ormai recisi o consunti dal Male che imperversa e che spinge verso la disgregazione.

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