La storia è stata una storiaccia. Nell’epoca cafona dei social, da storiaccia s’è fatta canovaccio di un film a luci rosse: orge, sesso, tacchi e stivali, collari e perdizione. Una materia impossibile d’arginare, esposta al pubblico ludibrio: tutti ridono dei matti in piazza, purchè non siano della loro razza. Aggiungete il fatto che protagonisti sono stati due preti e il disegno è di quelli da fare cappottare la testa ai più, da affossare un’intera diocesi: ci sono giorni – e quelli lo sono stati, per davvero – in cui il peccato di un singolo è il peccato di una collettività, di un presbiterio. “Siete tutti uguali, vergognatevi!”: a chi di noi, con veste o senza, in quei giorni ancora vivi non è capitato d’imbattersi in un’occhiataccia, un ghigno, una battuta che ci facesse sentire polvere di fango, rifiuti di una storia millenaria appoggiata sulle nostre spalle? La vergogna: ecco la parolina magica di quelle giornatacce. La gente ci chiedeva la vergogna sul volto – come dar loro torto? – mentre la massa ci metteva alla gogna. Delle due, o l’una o l’altra: la gogna non è la vergogna, sono il bianco e il nero di un avvenimento, una opposta all’altra. Dalla gogna nasce la morte, quella fisica e dell’anima, dalla vergogna rinasce la speranza. La vergogna è di Dio, la gogna è di Satana: il lussurioso più lercio.
In questi giorni don Roberto Cavazzana, il cinquanta per cento di quella schifezza di storia, riceve il perdono del suo vescovo. Per la proprietà transitiva, incassa il perdono della sua diocesi. La gogna non l’ha perdonato, chissà se lo perdonerà: la vergogna – «Ha chiesto da tempo di essere perdonato, di poter continuare a fare il prete» ha scritto il vescovo – lo ha salvato dal baratro di una perdizione ch’era appostata lì, appena fuori dalla sua porta. Sarebbe stata cosa facile andarsene altrove, reinventarsi una vita, nascondersi alla società: “Troppo grande il peccato per essere perdonato!” gli avrà bisbigliato, nel greto di nottate insonni, quel maledetto di Lussuria. Anche Dio, zigzagando tra le fognature che si erano rotte, non ha taciuto, però: “Quello che hai fatto è una cosa orrenda, se puoi farlo, ripara: ma prima di tutto non guardare alla colpa, guarda a me”. Dice sempre così Dio ai peccatori: a Roberto, al sottoscritto, a Cesare Battisti, anche a Donato Bilancia. Dalle fogne di una storia, non c’è che una strada per risalire, se si vuol risalire: (ri)volgere lo sguardo a Dio, facendolo transitare attraverso gli sguardi pesanti degli uomini. Di quelli che abbiamo scandalizzato, confuso. Perdonare è disumano, nel senso lucente del termine: non cambia il passato – «scandali che in nessun modo possiamo accettare, né giustificare» continua il vescovo -, ma muta la destinazione d’uso del futuro. Di Roberto, di me, di molti se lo vorranno.
Don Roberto ha peccato, come io ho peccato: e allora? Il vero problema, a conti fatti con la calcolatrice del Vangelo, non è il peccato, è la disperazione: la follia di pensare di aver compiuto un peccato così immane da sovrastare la forza della misericordia di Dio. E’ la superbia a fare di un gesto un peccato mortale. Il vescovo, su questo, è stato di un’umanità sincera: «Sono contento di sentirmi costretto» al perdono. Fosse stato per lui, chissà se l’avrebbe perdonato: forse sì, forse no, son calcoli insipidi. E’ stato costretto. Stretto e costretto da Dio che, ricordandogli la sua umanità, gli ha illuminato il cuore dicendogli: “Claudio, una cosa è il peccato, altra cosa è quando il peccato diventa uno stile”. Parole nude, crude, una lama di fioretto: «Come padre accetto la sua domanda di perdono».
Il futuro di Roberto? Da vertigini: immaginate la forza che uscirà da quelle mani quando, in confessionale, capitalizzerà il suo passato rialzando le storie dei peccatori. I Greci, per primi, l’avevano fiutato: ammalati, andavano alla ricerca di medici che avessero sofferto i loro mali per curarsi, “ci capiscono meglio”. La storiaccia (ri)torna a farsi storia. E non ridete, per favore: è “storia sacra” a tutti gli effetti. Quella che non poggia su manufatti di calcestruzzo ma su stecchini di legno. Piace, non piace: questa è tutta un’altra faccenda. Che a Dio non interessa.
(da Il Sussidiario e Il Mattino di Padova, 10 marzo 2019)
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