Non ci rimane che bere. E soffocare in una goliardica festa di prima estate la frustrazione di sentirci una “generazione fregata” (per usare un’espressione coniata giorni fa da Camon). Eppure la fregatura non sta tanto nell’essere costretti ad emigrare verso nuovi lidi, a mettere in gioco le nostre competenze in territori foresti e nemmeno a vederci sfrattati dai luoghi che c’hanno allevato ed educato. La vera fregatura sta nel fatto che – nella più perfetta tradizione dittatoriale – nessuno di loro vuole ammettere che sia in atto un processo di fregatura generale. E lo fanno con quella becera promessa secondo la quale “il futuro sarà loro”, cioè dei giovani. Che se lo sentono dire dai dinosauri di tutte le appartenenze a diciassette anni, se lo sentono ripetere a trent’anni e ne avvertono l’eco sulla soglia dei quarant’anni. Il futuro sarà loro, cioè dei giovani, ma solo quando morirà la vecchia guardia che, alleata tra di loro, si sta tenendo in piedi con un perfetto accanimento terapeutico. Finché vive, la preoccupazione delle preoccupazioni sarà quella di mantenere l’establishment e non farsi intruppare dalle novità giovanili.
Parlare del futuro detta tendenza, crea interesse ed è il luogo comune migliore per tenere a bada gli istinti della folla: nelle strade della città, nelle navate delle chiese, nelle aule delle università. Qualcuno, però, si sta muovendo perché non è così imbecille da intuire che la promessa del futuro (che rimarrà sempre un eterno futuro, ndr) non vale un pizzico dell’emozione di giocarsi il presente da protagonisti, pur sapendo di trovarsi ogni giorno col vento in faccia. Demonizzare le adunate giovanili e relegarle a semplici fenomeni di appartenenza goliardica significa non riconoscere in queste manifestazioni una duplice sfumatura: quella di annegare nella gioia e nell’ubriachezza la delusione di non vedersi aiutati ad accendere il futuro (non è un invito al vittimismo), ma dall’altra parte anche la voglia di creare una comunità giovane che inizi a far sentire la sua voce. Le cure palliative le può usare la medicina per il corpo qualora servissero, ma le medesime cure non valgono quando ad essere messa in causa è l’anima delle storie giovani. A Padova il botellon ha fatto centro, così centro che abbiamo avuto la dimostrazione più lapalissiana di cosa significa che il potere teme la giovinezza: in Prato c’era anche chi il giorno dopo commentava “Se è così, è un successo”. Certo che è un successo la creatività e la voglia di vivere dei ragazzi. Troppo spesso, però, ostacolata e irrisa s’incanala in direzioni che portano a firmare nefaste conseguenze. Sulla rampa di lancio oggi i giovani ancora non si vedono, nemmeno nella mia chiesa: ragione per cui teniamo tutto il sospetto che la promessa del futuro sia l’ennesimo tentativo di lasciar vivere in pace gli ultimi anni a chi sta anestetizzando la voglia di vivere e di esserci di migliaia di storie giovani. Facciamo leggi, firmiamo decreti, facciamo uscire comunicati stampa: ma almeno teniamo l’onestà professionale di ammettere che a chi è nato per le alte vette prima o poi vien noia di portare il mangime dentro il solito recinto di campagna. Ricordarci che “quando il domani verrà, non sarà come credete” è un magro augurio. Che, però, nasconde la gioia delle gioie: “l’unica gioia della vostra vita è questa speranza”. Chiamatela poca cosa questa speranza: coloro che l’hanno persa ci stanno offrendo la testimonianza migliore di cosa significhi vivere, agire e credere da pessimisti. Fossimo come costoro davvero non ci rimarrebbe altro che ubriacarci. Portando in tournée il botellon.
Cin-cin vecchi poeti: bevete e divertitevi, ultima stagione è la vostra. Perché nemmeno per voi il domani sarà come lo state immaginando.