carcere-1O il perdono o la vendetta. Queste le soluzioni più gettonate di fronte alla delinquenza. Perché quella che balena nella testa di molti non può chiamarsi giustizia. Quando sento dire «io voglio che chi ha fatto del male soffra» non è la giustizia a parlare. È il desiderio di vendetta, verso chi ha infranto una qualche norma del vivere civile; atteggiamento assolutamente comprensibile, ma non attuabile, almeno se vogliamo garantire non solo la sicurezza, ma almeno un tentativo di “fare giustizia”. Che è diverso da “essere giustizialisti”. Del resto, lasciando per un attimo da parte l’emotività e i coinvolgimenti personali, credo che chiunque si renda conto che “far soffrire” una persona sia solo un atto sadico, incapace di essere in alcun modo educativo o di riparare al male arrecato a cose o (a maggior ragione) a persone. L’unico risultato è quindi la soddisfazione di chi è sentito offeso da un gesto sbagliato, e magari anche malvagio. Ma anche questa è una soddisfazione assolutamente momentanea, quindi di ben poca utilità (almeno a mio avviso).
Poi, c’è l’altro lato della medaglia, o l’altro piatto della bilancia: quello di chi, a partire dall’insegnamento di Cristo, oppure spinto da idee libertarie, sostiene il perdono o l’amnistia generale. Tra le due posizioni c’è un abisso, anche se apparentemente il risultato è lo stesso. Per comodità, parto ad analizzare la seconda. Generalmente, chi vuole favorire lo svuotamento delle carceri, parte da un dato oggettivamente vero (il sovraffollamento delle carceri, la mancanza spesso di condizioni igieniche e dei diritti minimi da garantire a ogni uomo, per se macchiato da colpe) per indicare in un’amnistia generale (e, secondo molte proposte, incondizionata) l’unica, possibile soluzione a questo problema. Questa è un’impostazione pragmatica della questione, che mira a risolvere un problema concreto, reale e pungente; ma si dimentica di porsi una domanda importante: «Perché furono create le carceri?». Evitare di rispondere a questa domanda è un’omissione colpevole. Solo ragionando sul motivo per cui esse esistono, si può in seguito discutere sulle modifiche alla modalità di incarcerazione o scarcerazione, di sconto della pena, di detenzione e di tutto il resto.
La prima opzione mostra invece il problema opposto. Senza dubbio il perdono riguarda uno dei paradossi più belli e difficili portati da Cristo. Da un lato scopriamo quanto sia liberante, dolce e – oserei dire – indispensabile ricevere perdono: per avere stima di sé, per riuscire a superare i propri errori ed andarci oltre (basti pensare a quanto sia importante, per il bambino, comprendere che il genitore, anche se è arrabbiato perché il nostro calcio alla palla ha rotto il vaso preferito, ci perdona e ci considera più importanti e preziosi del vaso che si è rotto). Dall’altro lato, non basta un’educazione al perdono per essere capaci di perdonare a nostra volta. Il perdono – quello vero – è proprio difficile, impegnativo, lungo e talvolta doloroso perché va a mettere il dito su una cicatrice che ancora duole. Tuttavia, è comunque vero e credo che chiunque abbia avuto modo di sperimentarlo possa confermarlo: dare e ricevere perdono è vitale, indispensabile, liberante. Senza questa scelta di rinnovare la fiducia (magari una fiducia “ammaccata”) nonostante un errore, un fraintendimento, una malizia, una paura è proprio ciò che garantisce nuovi inizi e consente al mondo di non fermarsi di fronte al Male.

Ma c’è un dettaglio che non può essere trascurato. Neppure il perdono di Dio è totalmente gratuito… basta leggere il Vangelo. Zaccheo ()Lc 19,1 -10) si impegna in una conversione della propria vita, la peccatrice (Lc 7,36-50) dimostra di essere capace di amore incondizionato e gratuito. Sono gesti che probabilmente servono più agli altri che a Gesù, che legge i cuori. Ma sono gesti che inequivocabilmente sono testimoni di un cambiamento in atto, di una volontà di rivolgere la faccia al Bene. Ecco perché noi uomini, che non siamo Dio e non abbiamo la sua capacità di leggere direttamente il cuore, abbiamo bisogno che ci siano posti fatti apposta “per cambiare”. Un’assoluzione senza pentimento e comprensione dell’errore potrà essere solo una finta assoluzione!
Vale la pena riflettere sulle parole del papà di Lucia “Lula” Varriale, investita e uccisa in un incidente stradale, da un giovane cha aveva fatto da poco uso di cocaina alla guida di un’auto, a Bologna. Una delle tante stragi del sabato sera (a pochi passi da una discoteca, del resto). Ma possibile che siamo talmente assuefatti da questa realtà da non riuscire più a vederne la gravità e la possibilità, sempre e solo con l’impegno di tutti, a fare qualcosa di concreto e tangibile. Magari anche solo un segnale, un segno: per chi verrà dopo, magari. È quello che lascia intendere papà Varriale, nel suo sfogo, che contiene, al contempo, un appello e un disperato grido di aiuto: «Io non voglio la sua condanna, voglio la sua rieducazione. Voglio che qualcuno sappia rimetterlo in società, bene; non che lo rimette più incattivito…gli potevano togliere anche due anni, non un anno, tre anni. Ma rimetterlo in società pulito! Sarebbe stato un miracolo di mia figlia…».
Nella semplicità della sua espressione, emozionata di fronte alla telecamera, accompagnata da un italiano un po’ ballerino è racchiusa grande saggezza, spesso assente da tanti dibattiti sull’argomento. Sono le parole di un padre ferito, distrutto da un dolore enorme, com’è la perdita di un figlio. Ma, non bastasse, è anche oltraggiato da una giustizia che sembra – addirittura – irriderlo. Perché una condanna ai domiciliari dopo aver ucciso durante una guida in stato di ebbrezza, è molto vicino a depenalizzare (quindi, in un certo senso, giustificare) fatti come questi. Così facendo, dunque, viene a mancare l’aspetto educativo della legge: non solo per il colpevole, ma per tutti. La certezza della pena dovrebbe essere un monito per tutti perché ci sia più attenzione, più cura prima di mettere in pratica comportamenti pericolosi per sé e per gli altri. Tuttavia, questo papà, andando oltre al coinvolgimento emotivo (inevitabile!), ci regala uno spunto di riflessione. Ci fa pensare al senso per cui nascono, sono nate o quanto meno si sono conservate le carceri. Certamente, molte volte, al vederle, penseremmo tutt’altro. Ma sulla carta, si parla chiaro. Alla necessaria sicurezza pubblica, che si cerca di garantire allontanando il soggetto ritenuto pericoloso dalla società perché non sia nocivo all’intera comunità (unico motivo, cioè, per il quale lo Stato è autorizzato a togliere la libertà è quello di garantire l’incolumità degli altri suoi cittadini), va garantita la rieducazione dell’individuo considerato nocivo. Se così non fosse, le carceri dovrebbero essere unicamente “contenitori differenziati” di persone “sbagliate”. Se il ruolo delle prigioni fosse unicamente “contenitivo”, però, non avrebbero neppure senso di esistere. Non sarebbe che l’ennesimo spreco di denaro pubblico. Ragionando per assurdo, tralasciando le connotazioni morali del caso (che però non andrebbero tralasciate!) sarebbe allora da preferire la pena di morte, in quanto maggiormente garante che l’elemento di disturbo non arrechi più fastidio al resto della comunità.Questo però sarebbe un’enorme sconfitta, dal punto di vista antropologico e sociale. Significherebbe annullare tutte quelle potenzialità positive presenti in quella persona, solo in base ad un errore, uno sbaglio, un misfatto. Significherebbe ridurre una persona, con tutte le sue potenzialità ancora inespresse, alla misura di un suo sbaglio (che è, per quanto grande, limitato nel tempo e nello spazio).
Se ci sono le carceri, è perché c’è la fiducia, o – quanto meno la speranza – che nessun errore sia così grande da poter mettere un punto definitivo alla vita di una persona. Dietro alle spesse mura di un carcere, fa capolino, la speranza tenace che il cambiamento sia sempre possibile: pur senza avere la possibilità di sapere il come, il dove o il quando, talvolta azzardando ipotesi; ma, senza questa fede nell’uomo è impossibile parlare ancora di carcere. Né di argomenti affini.

Le parole del padre, commentate nell’articolo:

Fonti:

Asaps

Corriere di Bologna

Il resto del Carlino

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