C’è un’espressione che serpeggia sovente tra le righe del Papa – teologo Benedetto XVI: “allargare la ragione”. Un’espressione usata come monito, come diagnosi, come invito rivolto a quegli uomini che nutrono ancora la passione di osare l’inedito nella cultura odierna. Ma invitare ad allargare significa, perlomeno, tenere più di qualche indizio che richiami la chiusura, la pesantezza, il senso di prigionia. Il teologo Henri de Lubac amava dire che il cristianesimo aveva portato una freschezza di vita nella tristezza dell’Impero Romano: forse è la medesima impresa che sta tentando dalla cattedra di Pietro il Santo Padre. Che sia una cultura triste e un pensiero debole quello in cui viviamo non è una novità: quasi c’abbiamo fatto il vezzo a sentircelo ripetere. Eppure quando il Santo Padre lo ribadisce – dopo averci riflettuto per anni da teologo – la levata di scudi è garantita. Tra la lectio magistralis di Regensburg e la riflessione sull’uso del preservativo in occasione del recente viaggio in Africa ci sta una piccola collezione di ambiguità sulle quali ci si è dati appuntamento per screditare la sua parola. Lungi dall’essere occasionali intoppi di percorso e surclassando l’onda di coloro che gridano troppo facilmente al complotto, forse la questione abita una dimensione più sottile e, quindi, comprensibile se letta in profondità.
Si parte dal dilemma che anima ogni sana forma di teologia: di fronte alla sfide lanciate dalla post-modernità, può la teologia rimanere ancora barricata nella sua essenza dogmatica o è chiamata a correre il rischio di rivestirsi anche di un carattere affettivo, cioè di mostrare il lato amabile del cristianesimo fatto sì di verità e di bontà ma anche di bellezza? Dal canto suo, il mondo è ancora capace di lasciarsi denunciare dalla Chiesa nella sua modalità di ordinare il cuore dell’uomo? In questa prospettiva – per sua natura feconda ed evangelica – sembra che oggi la Chiesa sia gentilmente invitata a tendere al minimo, a smettere la sua forma di denuncia (che non è sinonimo di ingerenza), a starsene fuori dalle grandi manovre che riguardano l’esistenza: alla persona del Santo Padre sembra si voglia imporre un pensiero di relativismo etico, di dittatura del post-moderno. Quasi che – come preannunciava Paolo di Tarso al “figlio” Timoteo – rifiutata la verità per volgersi alle favole, si cerchi maestri che dicano quello che si vuol sentir dire. Ma nessun rapporto maestro – alunno trasmette la verità con tale pedagogia. In realtà il pensiero di Papa Ratzinger potrebbe essere letto in un’ottica non solo di dogmi da rispettare, bensì di uno stile nuovo da assumere. “Stile” è una parola chiave che abita oggi la teologia. Chi riflette su questa dimensione si pone una domanda molto precisa: nella cultura d’oggi, che vede nella globalizzazione una nuova religione, hanno ancora forza d’attrazione e di presa i misteri fondanti e fondamentali del cristianesimo? La sfida che anima tale corrente di riflessione è di tratteggiare uno stile che, salvando il copyright della sua origine, non per questo cessi d’essere umanamente valido. Cioè di saper parlare all’uomo di ogni tempo: e in questo senso la teologia è chiamata ad entrare nelle pieghe della cultura per interpellare lasciandosi interpellare.
Che, di per sé, è una situazione di meravigliosa collaborazione perchè nelle strade del finito e del tempo si cerca le tracce dell’Infinito e dell’Eterno. Un po’ il gioco del pesce con l’aria: il pesce cerca l’aria dentro l’acqua. Se volesse respirare senza l’acqua morirebbe. L’aria nell’acqua, Dio nel mondo. Tenerli uniti è l’unico modo per non fraintendersi.