capitelloIl loro salotto è stata la strada. Eppure, nelle chiese, i Santi sono castigati dietro i vetri blindati dei capitelli: rigorosamente con le candele accese e i mazzi di fiori come forma di timorosa assicurazione. Laddove non sono capitelli sono nicchie: gabbie nei muri, elegantissime prigioni, quasi una strategia per proteggerci dalla loro presenza. Anche la Madonna – il personaggio che nei Vangeli ha percorso più chilometri di tutti, appena dopo suo Figlio – l’abbiamo inscatolata là dentro. A Lei – così sempre in strada da diventare la strada maestra verso Dio – le si concede il lusso di portarla a spasso per il paese ogni tanto. Poi, ovviamente, deve tornare dentro.

E’ davvero strano il destino che si riserva ai santi, dei quali in questi giorni celebriamo la festa. Anzi, la solennità: che nella liturgia è quasi un raddoppio della festa. Eppure c’è qualcosa che stona: perchè costringere alla clausura proprio quella gente che in vita ha fatto della strada il loro salotto? Proprio loro: così seriamente infangati di terra – di giorni, di fatiche e di strenue battaglie – a fare i conti con il silenzio claustrofobico di certi capitelli. Dove, a parte le ore di punta, non passa mai nessuno a darci un saluto. A concedere loro un semplice cenno del capo.
Sono presenze radiose i santi. Così radiose da apparire fastidiose: dunque, da allontanare il più possibile dalla vista del popolo. Perché il santo più che essere l’uomo della magia e il profeta dell’astrattezza è proprio l’esatto suo opposto: è l’uomo più concreto che sia in circolazione. Così concreto da aver affondato profondamente i suoi passi e il suo daffare nella sua storia quotidiana, al punto da essere riuscito a trasformare quella piccola storia – semplice, feriale, quasi anonima – in una trama che attesta la possibilità di ciò che, a prima vista, sembra impossibile. La loro filosofia è molto spiccia. Potessi intervistarli, son quasi certo della loro risposta. Potrebbe suonare più o meno così: “Chi dice che una cosa è impossibile, non disturbi chi la sta facendo”. Scocciano per davvero i santi: a ragionare come loro spetta una vita da cani randagi. Tutti dicono di amare i profeti, ma quando li trovano ad abitare le loro strade li prendono a sassate. O, più elegantemente, li prendono in giro. Salvo poi, una volta resi santi, intercedere presso di loro le grazie dal Cielo. E ingabbiarli dietro i vetri, quasi si temesse una loro rivendicazione.
La solennità dei Santi è la celebrazione del paradosso per eccellenza, quello che solo una storia ambiziosa come quella di Gesù di Nazareth poteva azzardare: pensare che l’impossibile è sempre un’occasione per Dio. E’ sapere che laddove s’infiacchiscono le forze dell’uomo, in quell’istante s’accende la grazia di Dio. Passeggiare per Padova e sapere che su queste pietre ha camminato Antonio è sospettare che la santità si costruisca abitando sulla terra e non “tre metri sopra il Cielo”. Ogni città, dai giorni di Cristo, deve fare i conti con i santi che l’hanno percorsa, annusata e toccata. Anche gustata nelle sue intrepide discordanze. Di certi santi ne conosciamo la storia guardando i capitelli: è come conoscere il più eccelso tra i poeti guardando una sua foto. Lo si conosce di superficie, di passaggio, quasi schivandolo. Per conoscere davvero un santo bisogna prima credere che all’inizio sia stato un uomo come tutti noi: un miscuglio di grazia e disgrazia. Anche di peccati e di nascondimenti. Ciò che ha fatto di quel peccatore un santo è stato l’unico segreto che oggi si vuol nascondere dietro i vetri dei capitelli, per paura che qualcuno ce lo ricordi: il non essersi mai arreso ai suoi peccati.
Rimettiamoli sulla strada i santi: amano tremendamente la clausura di Dio, aborriscono la claustrofobia di quaggiù. E conoscono bene il trucco dei capitelli.

(da Il Mattino di Padova, 2 novembre 2014)

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