Troppe volte rabbrividiamo, di fronte alle notizie del telegiornale, di fonte agli spaventi che ci fanno sentire piccini, di fronte alla corruzione che dilaga, di fronte a una crisi che ci penetra nel midollo: siamo atterriti e non sappiamo come rispondere alle tante domande che ci affollano la mente.
Eppure, ogni mattino, ciascuno di noi, pur tra i mille problemi piccoli e grandi che ci portiamo dietro, si alza, saluta il nuovo giorno e s’apparecchia a nuove fatiche, nuovi sogni, nuovi progetti. Perché sentiamo il futuro come parte del nostro presente e il presente come tempo per costruircelo.
Parliamo di fede, di fronte a disastri e calamità naturali, diciamo che la fede è un conforto. Parliamo di carità, come del motore che muove il mondo. E dimentichiamo la terza virtù…
«La Speranza è una bambina da nulla.
Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.
Che gioca ancora con babbo Gennaio.
Eppure è questa bambina che traverserà i mondi.
Questa bambina da nulla.
Lei sola, portando le altre, che traverserà i mondi compiuti.
[…]
E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione
che alle due sorelle grandi.
La prima e l’ultima.
E non vede quasi quella che è in mezzo.
La piccola, quella che va ancora a scuola.
E che cammina.
Persa nelle gonne delle sue sorelle.
E crede volentieri che siano le due grandi che tirino la piccola per la mano.
In mezzo.
Tra loro due.
Per farle fare quella strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono che non vedono invece
Che è lei nel mezzo che si tira dietro le sue sorelle grandi.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne giù anziane.
Due donne di una certa età.
Sciupate dalla vita.
E’ lei, quella piccina, che trascina tutto.
Perché la Fede non vede che quello che è.
E lei vede quello che sarà.
La Carità non ama che quello che è.
E lei, lei ama quello che sarà.
[…]»
Così come tante volte sottovalutiamo la potenza creatrice e la fantasia innovativa dei bambini, allo stesso modo sottovalutiamo il ruolo insostituibile della speranza, nella vita dell’uomo che abita questa Terra.
«E’ più facile disperare, ma è più umano sperare» recita una brochure di uno spettacolo dedicato a questo componimento di Péguy, che avrà varie repliche in Lombardia, nell’ambito del Grande Incontro delle Famiglie. Difficile trovare sintesi più felice.
Si moltiplicano ogni giorno le situazioni che dovrebbero portarci alla disperazione. Ma chi si dispera, muore (almeno un po’): muore dentro, si svuota di forze, energie positive e propositive.
Tanto che ci stupiamo se qualcuno è “un po’ giù (di morale)” e parliamo (a volte anche abusandone) di depressione, con malcelato accento di triste ineluttabilità, misto a uno strano stupore. Perché, nel profondo del cuore, ne siamo tutti consapevoli. In modo quasi misterioso, ma l’uomo è come se fosse fatto per la speranza, non per il piagnisteo: per rialzarsi, anche se è illogico, anche se sembra impossibile, anche se (alle volte) pare (o è) persino controproducente. Per rialzarsi dopo ogni botta che ti ha messo ko, dopo ogni esperienza negativa, dopo ogni delusione (anche la più cocente). C’è la sensazione (più o meno istintiva) che sia possibile cambiare, ricominciare, ricostruire.
Per questo motivo, la speranza è, in qualche modo, la virtù più inaspettata e – al contempo – più naturale, che dà significato e precede le altre due (fede e carità) e, anche se portata per mano da loro, è lei a spingerle avanti, nonostante le apparenze contrarie.
Faccio un esempio piccolo piccolo e molto concreto. Non c’è mamma che, dopo una sfilza di “quattro” portati a casa dal figlio, non speri, molto ardentemente ma altrettanto sinceramente, che la prossima volta possa essere sempre quella buona, quella che risolleva la situazione e infonde fiducia al figlio stesso: nelle proprie capacità, potenzialità, nel proprio riuscire. E questo, nonostante né la statistica né la realtà diano motivi tangibili per dar voce a questa speranza. Nonostante ciò, ogni volta, imperterrita e implacabile, rinasce, tenace nel cuore, affiora alle labbra ed è pronunciata, anche quando è accolta dai sorrisi di chi compassione di chi pensa che tu sia poco realista a sperare ancora.
«[…]
Possiamo mancare a Dio.
Ecco il caso in cui s’è messo,
Il brutto caso.
S’è messo nel caso di aver bisogno di noi.
Che imprudenza. Che fiducia.
Ben posta, mal posta, questo dipende da noi.
Che speranza, che testardaggine, che partito preso, che forza
incurabile di speranza.
In noi.
Che spoliazione, di sé, del suo potere.
Che imprudenza.
Che mancanza di previsione, di previdenza,
Di provvidenza
di Dio.
Noi possiamo far difetto.
Noi possiamo venir meno.
Noi possiamo non esserci.
Spaventoso favore, spaventosa grazia.
[…]»
C’è una speranza, anche nel cuore di Dio. È la scommessa più grande, che ha tatuato nel cuore dell’uomo. Si chiama libertà. È quell’arma potentissima, che fa sì che l’uomo possa essere il migliore degli angeli, o la più terribile delle belve su questa terra. Dio spera nell’uomo, spera che risponda alla chiamata alla santità, con la sua libertà. E non risponda, invece alle sirene intriganti e ammalianti dell’odio, del rancore, della violenza, del successo facile, del denaro a tutti i costi. Che si ricordi, insomma, di non essere solo su questo pianeta, ma in compagnia di tanti altri suoi simili e che, forse, se provassimo – almeno ogni tanto – a camminarci incontro, invece di pestarci i pedi a vicenda, potremmo ottenere risultati migliori per tutti e per ciascuno.
«[…]
Loro non vanno non corrono per arrivare. Loro arrivano per
correre. Arrivano per andare. Così è la speranza. Non
risparmiano i passi. Non ne verrebbe loro neanche l’idea.
Di risparmiare alcunché.
Sono le persone grandi che risparmiano.
Ahimé sono ben obbligate. Ma la bambina Speranza
Non risparmia mai nulla.»
Chi ha figli, nipoti, cugini in età infantile, chi per lavoro è a contatto con i più piccoli o chi, semplicemente, ha buono spirito d’osservazione non può non essersene accorto. Nel tempo che noi adulti andiamo da un punto A ad un punto B, i bambini fanno a tempo a inventarsi mille altri percorsi possibili nello spazio che intercorre tra i due punti. Percorrono molta più strada di quella che percorriamo noi, coi nostri tragitti precisi! Pur non andando – loro – il più delle volte, in nessun posto preciso!
La concezione di “risparmio” poi è totalmente aliena ai bambini, è “da adulti”. E infatti da adulti non siamo in grado, tranne forse i Santi, di avere veramente fede nella Provvidenza. Noi ci tuteliamo, risparmiamo, pensiamo a “quando saremo vecchi”. Ci sono tanti santi fondatori che hanno dato inizio a opere grandiose, senza soldi o quasi, confidando che la Provvidenza avrebbe “sistemato” ogni cosa.
Forse, questa diversa concezione del denaro, meno fiduciosa nella moneta e più nella generosità (di Dio, che agisce attraverso l’uomo), è la chiave di volta per non soccombere alla dittatura finanziaria.
Perché chi non si risparmia, sa amare davvero. . Di quell’amore che non calcola, non fa un resoconto di dare e avere, incolonnato in tabelle precise e calcoli complessi. Non pretende di sapere tutto, anzi si accontenta di sapere una cosa sola. Ama, e prova ad amare con tutto il cuore. In semplicità.
Spera nel contraccambio naturalmente, ma al contempo, prima di riceverne certezza, dona di cuore con quella gratitudine disinteressata che – forse – sanno provare solo i bambini.
Nota: cfr. Il Portico del Mistero della Seconda Virtù, di Charles Péguy