AntoineLeiris1

L’intervista è in mezzo al giardino: siamo nel quartier generale della Fiera Internazionale del Libro di Torino. La domanda, dunque, è da giardinieri: «Chi era Hélène?» Lo sguardo di Antoine Leiris è affilato come i denti di uno squalo. Di ghiaccio, come di chi ha fatto i conti con l’orribile e l’ha immobilizzato perchè non faccia ulteriori danni. Il suo racconto è un’addizione: la perdita di un amore sommata al peso di una paternità non-più-condivisa. E’ racconto di sottrazione: di Hélène, «la ballerina di carillon», la mamma di Melvil. La sposa di Antoine, giornalista francese, quello del Non avrete il mio odio scritto ai terroristi di getto, di petto, all’indomani della strage del Bataclan, a Parigi. Il destino, quando vuole, sa essere beffardo. La musica, anni fa, era stata cagione del loro amore: li aveva fatti incontrare, innamorarsi. La musica è magia: i direttori d’orchestra hanno la bacchetta, come i maghi. La stessa musica, una sera, li ha divisi, per sempre. Hélène esce per andare a teatro, non è più rincasata: «L’ho cercata dappertutto» confida Antoine. «Temo che debba prepararsi al peggio» gli suggeriscono mentre viaggia di ospedale in ospedale: la bacchetta dei terroristi si chiama kalashnikov. Non è magia, è follia: anche a Parigi la festa è finita.
La parola è il più enorme degli effetti speciali: alla loro discrezione, Antoine si aggrappa per non affogare. Per scendere in piazza a contraddire il male: «Venerdì sera avete rubato la vita di una creatura eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, ma non avrete il mio odio (…) Siamo in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non avrete nemmeno il suo odio». O forse s’è visto costretto ad espellere quelle parole, giusto per campare: «E’ per farle tacere che le digito sulla tastiera, perchè la smettano di lottare e mi lascino dormire» scrive nelle pagine del suo libro. Come fossero dei vicini di casa divenuti insopportabili: li lasci parlare, perchè poi la smettano per un po’. Dolore e terrore sono dei vicini molesti: non-odiarli è ignorarli, una sorta di tutela. «Tanti mi han chiesto se li perdono – confida con un sorriso dalla difficile decifrazione. Poi rallenta, va a cercarsi le parole chissà dove, ne gratta via il superfluo. Ne fa buon uso -. Ad oggi non li perdono. Il mio non-odiare è impedire alla rabbia di avere il sopravvento nel mio cuore. Voglio che paghino per tutto il male causato». Persa una battaglia, c’è ancora una guerra in piedi: Non avrete il mio odio. Il giocatore continua a giocare, la partita non è ancora definitivamente persa: «Gli orrori del mondo non intralciano il sonno di un bambino» scrive di Melvil, suo figlio. Non dovrebbero, almeno, intralciare.
La letteratura – era convinto Umberto Saba – non permette di camminare, ma permette di respirare. E’ il respiro di Antoine, compagna e compagnia: «La bellezza-rimasta è quella di prendere una storia, tra le migliaia a disposizione. E raccontare il mondo a partire da quella singola storia». La lotta al terrore, ad ascoltarlo, va condotta a suon di storie: materia debole, inerme, a prima vista pure inadeguata. Efficacissima: «Anche la democrazia può apparire come un qualcosa di debole: i grandi sistemi dittatoriali lo pensavano. La loro disfatta, però, è arrivata con l’uso della democrazia». Che, a darci ascolto, non pare proprio un teorema ingegnoso, un assioma geometrico. E’ una democrazia che odora di grammatiche familiari: «Il terrorista non è un eroe: è forte solo se ha un’arma in mano. Il vero eroe è chi, il giorno dopo un’attentato, va al parco col bambino, entra in un bar a bersi un caffè, esce per una passeggiata». Vincere la paura, però, non è mai vincere la morte: «Non si guarisce dalla morte. Ci si accontenta di addomesticarla. E’ un animale selvatico, ha zanne affilate. Cerco soltanto una gabbia dove rinchiuderla».
Al cimitero di Montmartre, nel campo numero X, è rinchiusa oggi Hélène Muyal-Leiris: lì, appena sotto terra, è deposta la chiave che apre sui segreti di Antoine e Melvil, i sopravvissuti. Il male, anche il terrore, certe mattine somiglia ad un cancro sordo, muto, cieco: prima di asportarlo, si consigliano cicli di chemio, di radioterapia. Il male va prima isolato, poi asportato. Ciò che rimane andrà grattato via, fino all’ultimo millimetro. Non-odiare non è perdonare: voler-bene non è, per forza, amare. Eppure, oggi, il semplice non-odiare sembra già vertigine, quasi illusione. Il non-odio di oggi, però, è un diritto per domani: «Il diritto di sprofondare. Di non essere divertente. Di avere delle giornate no. Di non parlarne più. Il diritto di non essere capace». Sono parole di Antoine: scritte nello sguardo, prima ancora che su pagine. Il male, lui ha scelto d’incatenarlo, come un galeotto: ad ogni udienza, lo riporterà in tribunale. Anche il male deve ancora una spiegazione a se stesso: glielo chiedono, in tanti, da sempre.
Chiudo il taccuino e ringrazio: lo lascio alla sua storia. Una sola domanda, tra le mille, è rimasta senza-voce. Ritento: «Chi era Hélène?» Lui, distinto, tace. E’ giusto così: un segreto è tale se rimane segreto. «Merci beaucoup, Antoine».

(da Il Mattino di Padova, 18 maggio 2016)

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