urlo1Alla fine saranno gli ultimi a salvarci.
E il motivo è presto detto: li pensi sconfitti e loro scattano in contropiede e ti scompigliano le carte e le previsioni. La storia narra decine di disfatte epiche firmate quando si pensava d’avere già in tasca la vittoria. Tant’è vero che il popolo contadino racchiuse il tutto nel proverbio che invita a non dire mai gatto se prima non ce l’hai nel sacco. Come monito circa la delicatezza e la fragilità di ottenere una vittoria. E gli ultimi un giorno potrebbero avere tantissimi nomi: un operaio della Fiat, un anonimo studente delle scuole professionali, la maestra di uno sperduto borgo di montagna, la vecchia nonna tutt’intenta nel lavare i panni. Non importa chi riuscirà a mettere il suo nome e la sua storia a servizio della grande storia degli uomini. Importa convincersi che qualcuno un giorno potrebbe inanellare la mossa vincente. E sarebbe bello che quella vittoria divenisse la metafora stessa della nostra Italia.
Potrebbe essere la storia di Matteo Manassero, 17 anni, il più giovane golfista ad imporsi in un torneo dell’European Tour. Come sarebbe bello se la sua storia fosse la metafora dell’Italia. Vorrebbe dire che viviamo in un paese dove i giovani hanno ancora gli spazi, le occasioni e la possibilità di diventare quello che sognano senza dover abbandonare la propria casa e mettere all’asta il loro talento fuggendo all’estero. A parole siamo tutti d’accordo, salvo poi relegare le loro prestazioni tra gli sport minori, dare loro lo spazio marginale dei bordi pagina, ridurre le loro imprese – per costruire le quali occorrono anni e anni di dura applicazione – a fatti di cronaca marginale. Questa sì, invece, è la metafora perfetta del trattamento riservato oggi alle nostre giovinezze: saziati perchè tacciano, accontentati perchè non disturbino, messi a tacere con il palliativo delle promesse su un futuro che sappiamo non diventare mai presente. Per fortuna dei dinosauri e a scapito delle farfalle.
Ma potrebbe essere anche la storia di Jonathan, 17 anni di perfetto anonimato, ma delle pagine da far rabbrividire i benpensanti. Ogni mattina sfida l’oscurità e sale nella sua apecar – ognuno possiede gli strumenti che la fortuna gli offre – affronta il Passo di Vezzena dal versante di Lavarone e s’inabissa lungo la Val d’Assa per sedersi sui banchi di una scuola d’Asiago. La prima nebbia d’ottobre, le nevi di dicembre, il gelo di gennaio o i venti improvvisi d’aprile non lo intimoriscono perchè lui sa che c’ha anche lui una storia da scrivere. Poi ogni giorno rincasa perchè c’è una famiglia da sostenere e una sorella da aiutare a diventare grande. Nessuno ne ha mai raccontato la sua storia, ma questa sì che sarebbe la metafora più bella della nostra nazione: una terra nella quale si premiano quelli che la gente addita come ultimi, nella quale si elevano le storie anonime fino a farle diventare lezioni, nella quale un ragazzo come Jonathan potrebbe diventare il modello dell’applicazione e della caparbietà.
Non sarà Marchionne a salvarci dalla disperazione. Né tantomeno il putrido show intellettualistico che sale dalle campagne di Avetrana stimolato dai plastici televisivi di Bruno Vespa. E nemmeno la lurida morbosità di chi la sera s’incolla di fronte al Grande Fratello. Saranno ancora una volta gli ultimi a salvarci. Quelli che – se solo potessero – scassinerebbero lo schermo della TV o infrangerebbero i monitor dei pc giornalistici per urlare: “ci vergogniamo d’essere italiani”. E avrebbero perfettamente ragione: perchè l’Italia giovane è molto di più di un semplice apparire sexy e sbandati quando sai per certo che la vita non è sempre e solo divertimento.
Un giorno impareremo a camminare. O saremmo costretti a farlo.

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