caffè

Sono calcoli strambi quelli elaborati nella Scrittura Sacra. Calcoli di tempo che confondono e impauriscono, imbizzarriscono. Uno su tutti: «Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte» (Sal 89,4). Di un migliaio d’anni si dice che duri, lassù, come un turno lavorativo, otto ore o poco più. Di cento giorni, figuriamoci, il calcolo apparirebbe infinitesimale, impercettibile. Eppure cento giorni, per apprezzare una presenza, bastano: per sperare o disperare, benedire o maledire. I primi cento giorni del vescovo Claudio: più simili al volo di una rondine – che annuncia la primavera – che al millennio della Scrittura. Eppure, a fidarsi della sapienza agricola, il buon-giorno si vede sempre dal mattino. Sopratutto se l’attesa era gigante e la curiosità aleggiava tra augurio e malaugurio. Lo Spirito, da parte sua, ponderava: poi, forte di agguati che solo al Cielo riescono, ha risposto con l’ennesima mossa a sorpresa, partoriente sorpresa. Nel nome del Dio-delle-sorprese, quello che vigila di perpetuo le orme degli umani di quaggiù.
Cento giorni e tre gesti che, a carezzarli con cuore e intelletto, sanno di buon-mattino. Partito dall’OPSA, cuore pulsante della carità padovana, a bordo della sua utilitaria, ha dato inizio alla sua conoscenza delle parrocchie varcando le ferrose porte della galera di Padova. Per poi, silente e sapiente, andarsi a presentare laddove i conflitti generano diffidenza, anche terrore: l’ansia che viene dalla non-conoscenza. Gesti che gli son valsi, ad occhi tra loro estranei, il titolo di “papa Francesco in miniatura”. Chissà, forse risalendo un po’ oltre, verrebbe da dire che i poveri erano una questione ancor previa a quella del papa d’oggi: era del Nazareno, la scelse la chiesa primitiva come identikit del suo stile, fu la direzione che imboccarono tutti coloro che appresero le preferenze del Cielo: nessuno ci potrà arrivare senza la raccomandazione di un povero. Quali poveri, di quali povertà? Nel Vangelo, a chi s’affaccia sulla soglia, non viene chiesto il nome, basta il dolore. Il Cielo, poi, s’arrangia a meraviglia nel ricostruire le storie dai volti, dalle cicatrici, dalle lacrime.
Sono loro, rulli-compressori d’urgenza e d’insistenza, a suggerire l’uso perpetuo del “tu” nelle relazioni: è dai tempi di Mosè – «Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso» (Es 32,13) – che quel pronome personale è stato elevato al rango della familiarità, dell’intimità, dell’alleanza. Farsi dare del “tu” – “chiamatemi don Claudio” – non è sciatteria, nemmeno simpatia a basso costo, men che meno confusione di ruoli. E’ il pronome cui s’appella un vescovo desideroso di sentirsi chiamare “Padre” senza imporlo a priori; è il pronome di chi, forte dell’autorevolezza, non ncessità dell’autorità; è il pronome del pastore che un giorno non necessiterà nemmeno più del “tu” ma gli basterà la mansuetudine di uno sguardo. Eccola, per chi scrive, la rivoluzione dei cento giorni: rivoluzione ch’è rivelazione di uno stile nuovo. Di vecchie logiche d’amicizia andate, finalmente, in soffitta.
L’odore dei poveri, il pronome della confidenza, l’aroma del caffè: quello davanti al quale ho conosciuto il mio vescovo. Mai, prima, m’era capitato che l’istituzione portasse la periferia a bere un caffè al bar: può la compostezza di un vescovo andare a spasso con la stramberia di un prete scassato? Certo. Bastava trovare l’ardire di arrischiare un gesto così semplice d’apparire rivoluzionario: la fregatura della vicinanza, dell’umana compagnia. Quell’aroma, da quel pomeriggio, m’accompagna tra l’odore di ruggine della galera. I poveri un caffè lo offrono sempre, dandoti soltanto del “tu”. Basta poco per apparire giganti senza sminuire i piccoli. Basta essere uomini, prima che vescovi.

(da Il Mattino di Padova, 24 gennaio 2016)

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