Ho letto la tua lettera lunedì scorso, caro ragazzo, e oggi m’impongo il tempo di risponderti. Chi ti scrive è il tuo amabile e contestato parroco*, quello che tu senti parlare mentre te ne stai seduto sui gradini della nostra chiesa di quartiere. Quel prete un po’ stempiato e paffutello al quale piange il cuore non essere all’altezza dei suoi giovani. Tu mi perdonerai, Luca (hai visto che conosco il tuo nome?) e ti chiedo solo d’essere certo che la Chiesa sopravviverà anche ai miei sbagli di prete e di uomo, al mio parlare di Berluska e Milanese invece che degli operai nella Vigna o del Vangelo della domenica.

panchina

Lo vedo anch’io che qui in parrocchia qualcosa non va: al numero delle tessere vendute a inizio anno (che tu ami definire la “Campagna Abbonamenti”) non corrisponde più una partecipazione convincente nei mesi a seguire. Anche la castagnata che organizzo gratis ogni autunno vedo che non attira più voi giovani. E pensare che vi ho comprato un biliardo nuovo, la TV al plasma e la play-station, vi ho abbassato il prezzo per affittare la sala musica e ho sempre un occhio di riguardo in quello che chiedete. Qualche screzio lo ricordo, ma capisci la mia morale un po’ datata: oggi – tenendo conto della differenza tra sfera pubblica e privata che vige in Italia – non mi permetterei più di cacciare qualche tuo amico perché lo trovo a scambiarsi dei baci dietro il patronato. Hai ragione: forse quella volta ho esagerato, non ci stava proprio quella sfuriata dopo mesi che avevate dato l’anima ai campi estivi.
Vedi Luca, non è proprio questione di mancata carriera la mia. Ho anch’io le mie debolezze, certe sere mi sento sfiduciato e stanco, sono anni che capisco che il mondo è cambiato. Quando celebro qualche funerale giovane m’accorgo che ci sono più magliette del Padova e del Cittadella che simboli religiosi nella bara. Il fatto è che mi trovo a combattere in un’arena dove l’unico ordine impartito dai miei superiori sembra essere quello di “resistere”. Ma io di resistere non ce la faccio più: vorrei poterti raccontare lo strazio di dover salvare l’istituzione senza allontanare la gente, di rispettare le regole senza far piangere un peccatore, di carezzare un bambino senza essere sospettato di pedofilia, di criticare la mia Curia senza dover pagare poi con anni di silenzio. Non è una gioia per me pregare sempre con le solite persone e sentire che voi fuori, al momento della consacrazione, invocate Totti e Del Piero, mandate a quel paese Gasperini e rimpiangete la bravura di Mourinho. Non sono geloso di loro ma semplicemente mi chiedo perché loro sì e io no. Mi chiedo: e poi capisco.
Ho sofferto quando tu mi hai detto che vi parlo poco di Dio in Chiesa: il fatto è che quando parlo di politica e di economia, di mezzi gossip e di opinioni personali mi sembra che la gente non dorma. E penso che Dio vada interpretato a seconda della gente presente. Poi m’accorgo che perdo voi e allora capisco che qualcosa non quadra nelle mie operazioni. Non c’è nulla da fare: tra me e voi c’è un’immagine di Dio diversa registrata nell’animo. Però hai ragione tu: devo trovare il coraggio di riportare Dio nella nostra chiesa di quartiere. Pensare che emozione mi nasce nel cuore quando m’inabisso nella Scrittura, quando prego la sera, quando penso a cosa potrebbe dire a voi oggi Gesù dei vostri affetti, delle vostre ferite e fatiche, della vostra giovinezza e della vostra fede difficile. Del vostro sogno di sano protagonismo.
Ci siamo persi, Luca, e magari un giorno ci ritroveremo. Nel frattempo sappi che Dio è molto più grande di me. E che un certo stile di essere Chiesa toglie il sonno pure al sottoscritto. Per questo la tua lettera sta sul mio comodino.


* Un parroco che scrive di sé onestamente: quant’è bella la Chiesa che non nasconde la fatica dell’umanità e delle sfide del ministero. E poi tutti gli altri preti nascosti che ogni giorno danno la vita per condividere la gioia di aver incontrato Gesù di Nazareth. Vivono lontano dai Tristi Palazzi del Potere Ecclesiastico (e forse per questo sanno ancora sorridere), annusano la polvere dei quartieri degradati, stringono mani sporche di fango e piene di calli: con la gente piangono e s’emozionano, abbracciano e si lasciano abbracciare, l’odore della storia non arreca loro nessun fastidio. Magari non sapranno parlare con versi poetici e nemmeno scrivere con penne veloci, eppure le loro chiese sono zeppe di giovani che rimangono ammaliati dalla loro umana debolezza che s’è lasciata ri-vestire e in-vestire della grazia di Dio. (don Marco Pozza)

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