Quell’anima ha varcato la porta del confessionale che era fracassata: l’anima è una lingua, ma è raro trovare chi la parla. L’immagine che risvegliò era di forte impatto: in un negozio di Swarowskij, al posto della leggiadria della commessa, passeggiava un pachiderma. Per anni aveva scordato che, in caso di incidente, le ginocchia ci salveranno: mettersi in-ginocchio è posizione di pronto soccorso. Per chi crede e ama è posizione di primo-soccorso: «Dio mio, spiegami come si fa ad amare la carne senza baciarne l’anima» (A. Merini). Si è inginocchiata, dopo stagioni di amori garibaldini, perché l’amare è la metà del credere. Il male, in qualunque modo lo si declini, è un tarlo che rovina sia il credere che l’amare. Ritenere che il male non sia capace di amare è la maniera più pericolosa di svalutarlo, sottovalutarlo. Anche Dio, pronunciato in ginocchio, è pericoloso: è una parola che non ha senso se non si perde dentro le altre parole.
Ha bisogno di circolare ovunque: vuole sfidare la morte dentro la mia morte.
Quand’è seduta di fronte a me – che con la stola addosso ho tutto ciò che mi serve per raccogliere la vergogna respingendo la forza d’urto del male – apre il suo cuore. In quell’istante, difficilissimo da trattenere, avverto l’eco di una delle pagine più liriche della letteratura: «C’è uno spettacolo più grandioso del mare: è il cielo – scrisse il romanziere francese Victor Hugo – C’è uno spettacolo più grandioso del cielo: è l’interno di un’anima». È pagina sacra: «Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?» (Lc 9,25). Quell’anima, nel mentre dipingeva tutta la sua infelicità, pareva un cane assetato che annusa una fonte prosciugata. Era arrivata fino a lì, dopo stagioni, ustionata da una parola urlatale di passaggio: “Vergognati!” Non ricordava chi gliel’avesse pronunciata: con molta probabilità se l’era detta da sé guardandosi allo specchio in una di quelle sere amare, insoddisfacenti. Inconcludenti per un cuore che vuole amare, credere. A Dio – perpetuo viandante alla ricerca della vergogna per riciclarla in grazia – quel volto non era sconosciuto. Non si spiegherebbe come un’anima, alla cui memoria non sia rimasta traccia di Lui, possa raccontarGli con quella disarmante freschezza le montagne-russe di un cuore, di una storia, del proprio peccato. Mentre parla – lo sguardo fisso nei miei occhi che, in quello spazio di tempo, non sono più i miei occhi – il volto si trasforma in una passerella: sfila la Samaritana, Zaccheo, la Maddalena, Levi, Saulo. La sua confessione diventa una sfilata di moda dei peccatori: quando il peccato non va più di moda, svestirlo è la nuova storia che andrà di moda.
Gli occhi sono bagnati: ci sono giornate in cui il pianto è una delle forme di trucco più costosa. Le sue parole, invece, stanno in piedi, in punta di piedi: “Mi vergogno di tutto questo: perdonami, Dio!” L’anima, quand’è in stato di parto, sa tenere aperta la porta della sorpresa: sa nutrirsi di estasi come una cicala è capace di saziarsi della rugiada mattutina. Dopo quasi due ore di confessione, percepisco che il frutto va raccolto. Che una manovra così spericolata è traccia dichiarata del passaggio di Dio: riciclare la vergogna senza mutarla in gogna è affare di chi ama, perdona. È di Dio, e il nome di Dio è misericordia. Quando mi alzo per pronunciarle, per conto terzi, parole così dolci d’apparire quasi insulti al buon senso – “Ti assolvo da tutti i tuoi peccati, nel nome di Lui” – lo sguardo di quell’anima ha un qualcosa d’irrazionale. Mi scatena addosso un terremoto: “Se Dio esiste, ha i tuoi occhi”. Mi abbraccia. Da uomo sarei impazzito per una dichiarazione d’amore così. Avevo la stola ancora addosso: più che perduto, mi sono ritrovato. A urtare contro il brivido della misericordia, a condividere l’istante della risurrezione di un’anima.
Oggi è la festa della Divina Misericordia: dopo lo sguardo accecante di quell’anima, Satana è in lutto! Fare-festa è quasi poco.
(Il Mattino di Padova, 8 aprile 2018)