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Nella prima lettura, siamo nel VI secolo a. C.: il popolo d’Israele è angosciato per la deportazione in Babilonia, che ha distrutto ogni speranza ed ha messo in crisi ogni possibilità di riscatto. Nel dubbio che Dio si sia stancato del proprio popolo, il profeta, al contrario, afferma che è Israele ad essersi allontanato e sottolinea come Dio sia sempre accanto al proprio popolo (“dal seno materno”).
Vivere una storia d’amore è rimanere fedeli ad una scelta, pur nell’inevitabile evolversi di una situazione che il tempo muta. Dio enumera le colpe del popolo: a Dio, sommo Bene, il peccato non può che essere molesto e fastidioso.
Eppure, quest’ultimo non ha l’ultima parola. È necessario fare memoria, discutere magari, così da analizzare quali siano stati i motivi che l’hanno portato a comportarsi in modo negativo.
Il Signore, dopo aver detto di se stesso, nei confronti d’Israele, che “ti ha formato dal seno materno e ti soccorre”, quasi ad assicurare la propria sempiterna presenza, in un amore viscerale come quello materno, spinge anche oltre la propria generosità, fino a garantire:

«Non temere, Giacobbe mio servo, Iesurùn che ho eletto, poiché io verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido. Verserò il mio spirito sulla tua discendenza, la mia benedizione sui tuoi posteri» (Is 44, 2-3)

Dio non dimentica il male, ma, al contrario di quello che di solito facciamo noi, sa guardare oltre, spingendo il proprio sguardo oltre la nostra personale e collettiva insufficienza ed il nostro sempre generoso ma altrettanto disatteso proposito di essere uomini e donne migliori.

 La lettera agli Ebrei sorge in un contesto di grande disagio e di incomprensione dei fatti della storia, per i cristiani È crollata la struttura del popolo d’Israele negli anni 70 d.C. con la vittoria dei Romani, che hanno disperso i sopravvissuti dopo la distruzione di Gerusalemme. Alcuni di questi si sono fatti cristiani, ma continuano a trovare difficoltà perché sono considerati, dai propri fratelli d’Israele, traditori. Tutto questo mette in crisi i cristiani, perché sembra essere lontano anni luce dalla realizzazione delle promesse di Dio.
In questo clima, lo scritto paolino si adopera dunque per fortificare le coscienze e spronarle a non arrendersi, di fronte alle avversità ed alle incomprensioni.

Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. (Eb 12, 1-2)

Paragonando la vita ad una corsa di atletica, in cui sono molti a correre, ma la meta è unica, siamo invitati a non dimenticare a chi guardare, nel cercare un esempio. È Gesù che ci mostra quale sia lo stile evangelico con cui permeare le nostre giornate.

Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. (Eb 12,2)

Tutti abbiamo scelte “facili” e scelte “impegnative”. Da quelle più quotidiane, a quelle che ci impegnano la vita intera. Ci sono dei che ci costano una fatica immensa e che, sulle prime, hanno il sapore di un sacrificio, che ci allontana dalla gioia. Tuttavia, con la consapevolezza che Dio, quale buon Padre, «non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e maggiore» (Alessandro Manzoni, Promessi Sposi, capitolo 8), non resta che domandarsi, ogni volta: “Questa è vera gioia?”. E, molto spesso, ci rendiamo conto che non era altro che un momento di felicità estemporanea o – più semplicemente – un attimo di pigrizia, piuttosto che la vera gioia, perché Dio restituisce il centuplo a chi si rende disponibile a compiere la volontà e non manca mai di cambiare in gioia la generosità della nostra offerta sincera.

Nel Vangelo festivo, leggiamo che Gesù è a Gerusalemme per la “festa”. Non si dice quale, ma possiamo intuire che si tratti della festa di Pentecoste (o della mietitura), quando gli ebrei celebrano il dono della legge a Mosè e al popolo. Il capitolo inizia con la guarigione di un paralitico, che è visto in giro, in giorno di sabato, con un giaciglio sulle spalle; suscita scandalo, ribellione e addirittura raccapriccio portare un peso: è la violazione pubblica del riposo sabbatico. I Giudei fanno una piccola inchiesta e chiedono chi sia veramente il responsabile di questa guarigione e quindi di questa grave disobbedienza sul sabato.
La Scrittura (Deuteronomio 19,15) stabilisce che nessuno può essere giudicato colpevole sulla parola di un solo testimone: per questo, dunque, nel brano, Gesù parla della testimonianza e garantisce loro ben quattro testimonianze: la testimonianza di Giovanni (vv 33-35), “le opere che il Padre mi ha dato da compiere” (5,36), il richiamo delle coscienze (vv 37-38), le Sacre Scritture (vv 39-40).
Se c’è una garanzia, nella predicazione di Cristo, è proprio la corrispondenza tra le sue parole e le sue opere. La Croce stessa, da Lui liberamente accettata non è altro se non il culmine dell’intera Sua vita, spesa, goccia a goccia, nell’intento di compiere la volontà divina. Anche quando richiedeva fatica, incomprensione altrui, irriconoscenza, ingratitudine. Perché la coerenza richiede quella perseveranza che, come ogni atleta ben sa, è necessario allenare affinché non si ceda al primo affanno od alla prima frustrazione, nella quotidiana lotta contro il Principe del Male, che ci vorrebbe far suoi, allontanandoci dal Padre, che pure ci ama “dal seno materno”.

 

Rif. Letture festive ambrosiane nella III Domenica dopo il martirio di san Giovanni il Precursore (Is 43, 24c – 44, 3; Eb 11, 39 – 12, 4; Gv 5, 25-36)


Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone
Fonte immagine: Pexels

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