Sbandati, sgarrupati, sbalestrati, sballottati. Non stupisce che i ragazzini, oggi, siano, in un certo senso, più fragili che mai.
Lo vedi, in modo abbagliante, durante la prima adolescenza, con quell’atteggiamento ribelle che, volendo essere grande, finisce con il comportarsi, paradossalmente, in modo ancora più infantile.
Questo comportamento, messo in atto da ragazzi ormai quasi giovani, fisicamente in evoluzione verso il divenire uomini e donne, non solo spiazza i genitori e, più in generale, gli educatori. Di più, li spaventa, perché stentano a riconoscere il proprio “bambino”. Sembra quasi “cresciuto in una notte” ed ora, parlando come un uomo, muovendosi come un uomo, continua però, a comportarsi ancora come un bambino.
Perché, alla fine, è un po’ questa l’impressione che fanno, spesso, gli adolescenti: il più delle volte, il loro corpo completa la metamorfosi prima della mente e senti ragionare dei bambini in corpi da uomini; quasi inquietante, a tratti, l’adolescenza!
Il problema è quando i genitori o gli educatori si arrestano di fronte alla novità di questo atteggiamento (che, in molti casi, non è poi così nuovo, ma rappresenta, semplicemente, l’esasperazione delle piccole cattive abitudini, interiorizzate durante l’infanzia che, ormai, sono diventate il comune modo di agire) e rinunciano ad andare a fondo nella battaglia educativa: vuoi per stanchezza, vuoi per incapacità, oppure anche per l’errata convinzione che sia corretto dare ai ragazzi quello che chiedono.
Per quanto l’assertività (un linguaggio chiaro, che valorizzi gli aspetti positivi), come modalità di espressione e di approccio sia sempre preferibile, sono dell’idea che i vantaggi dei NO nella vita dei discenti siano irrimediabilmente enormi.
Ricevere un no è sempre un’esperienza negativa, in un certo senso, perché presuppone uno stop, rappresenta un ostacolo, un intralcio al raggiungimento di un qualche obiettivo.
Non per questo va evitato, anzi, proprio per questo, rappresenta un’esperienza fortemente educativa. Perché, alle volte, è proprio di una pausa, che c’è bisogno: un tempo che intercorra tra un desiderio e la sua realizzazione!
Indipendentemente da cosa sia negato, infatti, il solo e semplicemente fatto di ricevere un diniego rappresenta, per i giovani in fase di formazione un’esperienza straordinariamente ricca. Ciò insegna, innanzitutto, la capacità di attesa. Oserei dire che, solo per quello, non dovremmo mai risparmiare sui no, nella prospettiva di smantellare, sin dai primi anni di vita, la prospettiva triste, svilente, ma purtroppo attualissima, in quanto propugnata abbondantemente dai media, del “tutto e subito”. Come se ci fosse un diritto all’avere, a prescindere da ogni altra cosa, che, per di più, richieda di essere soddisfatto con immediatezza, come e più dei bisogni naturali ed effettivamente necessari.
Perché dico triste e svilente? Perché è triste e svilente il solo pensare di poter ottenere tutto senza fare fatica. Può sembrare bello inizialmente, non far fatica. Ma è solo illusorio, perché la fatica è un allenamento che ci prepara alle difficoltà che, prima o poi, in misura differente, tutti siamo chiamati ad affrontare e, senza allenamento, siamo come campioni che vanno a giocare una partita: possiamo avere tutto il talento del mondo ed essere ottime persone, ma, senza esercizio, non duriamo fino alla fine della competizione.
C’è poi un’altra cosa che i ragazzi rischiano di perdere ed invece è importantissimo imparino a fare. Sapere scegliere, stabilendo delle priorità.Significa non vedere la differenza tra ciò che è effettivamente giusto, utile ed eventualmente urgente e cosa non lo è ed invece può attendere.
Avere tutto e subito, come un diritto preacquisito fin dalla nascita, li porta a “dare tutto per scontato”, a non saper lottare per ottenere ciò che vogliono, aspettandosi sempre la strada già spianata e, nel caso non lo sia, che qualcun altro lo faccia al loro posto.
Questo approccio è fortemente diseducativo perché limitante e scarsamente capace di trasmettere fiducia nelle loro capacità.
Non concedere tutto, significa, implicitamente, imporre loro di fare una scelta.
Invitarli ad usare i propri soldi, magari guadagnati con piccoli lavoretti in casa, li aiuta a comprendere che il lavoro ha un valore e con esso è possibile conquistare l’agognata cartamoneta che apre le porte alle attività o agli oggetti più graditi e desiderati.
Ecco perché, nel dubbio, meglio aver detto un no in più piuttosto che uno in meno. Quello in eccesso, potrà essere “assorbito” successivamente, quando il giovane, stabilite le proprie priorità, deciderà che la cosa negata è abbastanza importante da cercare di ottenerla in un secondo momento, con altre strategie.
È chiaro quindi che ricevere dei no ha un’altra implicazione ancora. Sviluppare la fantasia, oltre alla determinazione. Perché, di fronte ad un no, un ragazzo determinato cercherò un altro modo per convincere i genitori a cambiare idea oppure ottenere più avanti quanto voleva, per cui ha ricevuto un rifiuto.
Senza contare una motivazione ancora più importante, anzi, in un certo senso, fondamentale. Crescendo, si ricevono ben altri no, proveniente da altri che non siano i genitori.
Da una ragazza che ti piace, da un datore di lavoro per il posto che sognavi da quando eri bambino, dall’impossibilità di fare una vacanza, perché ci sono le bollette da pagare… in quanti modi la vita ci oppone un secco e sonoro NO alle nostre aspirazioni, ai nostri desideri, alle nostre aspettative, che magari, davvero “non hanno nulla di male”!
I No sono parte della vita, ma richiedo un impegno e una maturazione, per poter essere accettati. Bisogna “farsi le spalle” per imparare a conviverci o ad opporsi – nel modo, di volta in volta, opportuno -.
Se, però, nessuno ci ha mai negato nulla, le nostre spalle sono troppo sottili per sopportare il peso di un no e il rischio è di soccombere sotto quel peso, che ci appare davvero gigantesco ed insopportabile. Dico ci appare, perché molto dipende dall’approccio al problema.
I nostri avi hanno affrontato la guerra e sono sopravvissuti abbastanza per raccontarcelo. Tanti ragazzi non riescono ad accettare un no e si tolgono la vita per la disperazione. Il motivo può essere semplice, a volte, persino banale. Ed è questo che lascia interdetti; dopo.
Perché non riusciamo, noi, da fuori, a concepire cosa sia passato dentro a quella mente. Ci sono dati che sono oggettivi, ma è la loro rielaborazione che è soggettiva; e questa rielaborazione è fortemente influenzata dall’educazione ricevuta.
Senza un’educazione ad avere dei no come risposta, il giovane rimane come “senza strumenti” per poter rielaborare questo input negativo, a tal punto che va in cortocircuito: non riesce a gestire questa novità. È come un nuovo oggetto di cui non conosca il funzionamento, né abbia il manuale di istruzioni. Un mistero. Che è come un macigno che gli piomba sulle spalle e che non riesce a trasportare. Per questo, ne resta schiacciato.
Non è mai qualcosa di oggettivamente impossibile da maneggiare. Ma è qualcosa che lo diventa, in mancanza della capacità di affrontare il rifiuto.
Se il rifiuto è vissuto come una risposta alla propria persona, allora diventa insopportabile. Ma l’esperienza dovrebbe, per l’appunto, avere il compito di far comprendere che il rifiuto è circoscritto: non sei abbastanza bravo in quello, non sei abbastanza brillante, non soddisfi una persona, un datore di lavoro. Non significa che sei tu ad essere sbagliato.
Ma è dopo tanti no che puoi rielaborare un rifiuto in questo. Non certo al primo. Se, tuttavia, il primo arriva a 25 o 30 anni, è impegnativo e mette in discussione i sogni di una vita? Ecco che arriva il dramma.
Nessuno dice che sia facile, nessuno si sogna di giudicare. L’educazione, questione del cuore, è l’avventura più complicata che esista. Per questo richiede passione e dedizione e, soprattutto, la determinazione di non arrendersi alla scelta più facile, che è la tentazione più ricorrente durante il percorso di crescita di un ragazzo. Perché nessuna scelta è priva di conseguenza.