E’ l’oscurità della notte a partorire l’aurora, come il turbinìo di una bufera ospita i primi passi dell’arcobaleno: la notte come grembo della luce, perchè “ogni bufera può strappare un bel fiore però non l’intera primavera” (E. Ramazzotti) Inizia oggi il processo sportivo a carico di Alex Schwazer, il marciatore altoatesino incappato quest’estate nelle maglie del doping. E’ la storia di un ragazzo che l’Italia sportiva ha adottato mentre luccicava dei colori dell’oro e ha poi condannato mentre la vergogna s’era impossessata di lui. Eppure la sua è la storia di un bambino nel cui cuore albergava il grande sogno di poter un giorno fare di una passione un bellissimo mestiere, fin quasi ad identificarlo con la vita stessa: lungo i bordi di un sentiero, a sudare sulla vecchia mulattiera, a farsi travolgere dalla brezza primaverile o dal freddo polare dell’inverno. Quando ci si diverte – ovverosia si prova un barlume di piacere dentro la fatica – anche lo sforzo più immane ha un sapore che crea nostalgia e voglia di migliorarsi. E pure il contrario: quando il divertimento vien meno, anche la capacità di sopportazione s’abbassa, l’entusiasmo si affievolisce e la fatica da compagna di viaggio diventa una strega malefica capace dei più grandi tranelli. Il giorno in cui l’uomo decise che la gloria poteva essere conquistata senza pagare dazio alla fatica nacque quel terribile figlio (in provetta) che la storia additò con il nome di “doping”. Il vecchio tranello luciferino che abita pure dentro la Scrittura Sacra: imboccare una circonvallazione ai piedi del Calvario per evitare la Croce.
L’Italia intera ha contemplato in diretta lo strazio di una conferenza stampa divenuta in un battibaleno il manifesto di cosa divenga vittima un’anima giovane quando non riesce più a trovare ganci di cielo in mezzo al buio della fatica. Eppure quello è stato il giorno che Alex ha definito come “il più bello”. Un felice paradosso, quasi un’incomprensibile verità o, forse, la confessione più tenera: “finalmente mi sono ripreso la mia vita”. Da quel giorno la vita dell’Alex nazionale ha ripreso a marciare pagando il prezzo della solitudine sportiva e umana, del linciaggio mediatico e popolare, dell’amarezza d’aver tradito una fetta dell’Italia sportiva che vedeva in lui il ragazzo semplice e solare, figlio di una terra splendida e ridente come il suo Tirolo. L’uomo di sport conosce quant’è breve il tragitto che dalle stelle conduce alle stalle: oggi sei sulla cima del mondo, domani sei nella profondità degli inferi. Nello sport, come nella vita.
Oggi potrebbe sorgere l’arcobaleno sopra le macerie di una disfatta: ripartire dai bassifondi della cronaca per tornare a guardare le stelle a viso scoperto. Il mio augurio è quello di ritrovare il sorriso posato e genuino di un ragazzo semplice che, guardato in faccia il suo errore, ci dà un nome, ne prende le distanze e ritenta la scalata dell’esistenza. I colloqui e gli sguardi raccolti nel ventre della galera insegnano che l’uomo non è mai solo il suo errore, è un capolavoro molto più sublime. Comprendere il gesto compiuto senza giustificarlo sarà il segreto per riaccendere nell’anima di un giovane deluso quella fiammella della passione che potrebbe poi ardere a nome di tante altre storie. Fosse solo per dire: “ho sbagliato, ho pagato, ricomincio”. Diverrebbe la lezione più bella per un mondo giovane al quale troppe volte come educatori abbiamo insegnato come si fa a vincere, dimenticandoci forse di offrire loro gli strumenti per l’avventura più complicata: imparare a gestire il peso di una sconfitta. E’ qui che la storia di Alex potrebbe diventare un cantus firmus dentro le sfide fallite dei nostri ragazzi. Con una speranza ringiovanita in tasca, come scrive Pavese in una sua poesia: “vivere è bello perchè vivere è ricominciare. Sempre, ad ogni istante”. Anche adesso, Alex.
(Avvenire, 30 ottobre 2012)