A un passo da me. Appena un po’ di più, talvolta qualcosa di meno. Ma pur sempre “qualcosa”. Questa è la distanza, inevitabile e talvolta persino necessaria tra me e l’altro. Per quanto mi possa avvicinare, l’altro non sarà mai – completamente – raggiungibile.
Permarrà pur sempre quella separazione che resta – nel cuore dell’uomo – come una sorta di ferita originaria, inscritta profondamente nelle sue viscere, marchiata a fuoco nella sua anima. Come la cicatrice ricordo di un gesto sprovveduto d’infanzia (aver toccato una stufa ancora calda, aver incastrato il polso tra due pietre, aver chiuso la propria mano nella portiera di un’automobile).
Quel dolore che affligge l’uomo in modo costante, insistente come una scheggia infilata in un dito, eppure sopportabile e alla volte persino dimenticabile, tanto è possibile mantenerlo in secondo piano rispetto alla nostra vita. Salvo poi, naturalmente, ritornare prepotentemente alla riscossa, qualora ci guardassimo allo specchio in modo più profondo.
Che cosa significa soffrire? Qual è la causa del soffrire, quale la sua conseguenza? Quando le parti che dovrebbero essere unite vengono separate e ostacolate nella loro tendenza a riunirsi, abbiamo la sofferenza dalla quale deriva il dolore. […]
Tutto il dolore umano risale al dolore primitivo, alla separazione dell’uomo da Dio
Ho sempre trovato questo passaggio, letto nel libro “La liberazione del gigante” di Louis De Wohl semplicemente illuminante. Perché, a ben pensare, è innegabile la sua verità.
Non esiste dolore che possa chiamarsene fuori. Ognuno trae origine da una qualche separazione, di qualunque tipo. Ogni sofferenza può essere ricondotta a una separazione. Una malattia separa dalla vita precedentemente condotta e separa il malato dalle attività che era abituato in precedenza a fare. Ma più ancora, la separazione è il vero motivo del dolore causato dalla morte di una persona cara. Ciò che è inconsolabile è il sapere di non poter rinfrescare i momenti trascorsi insieme, di non poterne creare di nuovi: la morte recide in modo sensibilmente tangibile una separazione netta e insanabile, da cui non si può tornare indietro. Ecco perché ci spaventa così tanto e solo la fede può parzialmente lenire il dolore, donando la speranza di una vita che non finisce del tutto, ma che cambia la sua forma.
Alle volte ci dimentichiamo di questa separazione, necessaria e inevitabile. Ci dimentichiamo che, finiti noi, iniziano gli altri. Ci dimentichiamo della straordinaria e meravigliosa soggettività, per cui nulla può essere – in senso pieno – univoco ed universale. L’homo mensura, se applicata a misura di se stessi, si rivela estremamente impoverente. Nella sua attuazione, infatti, spesso significa considerare il proprio ego quale misura di desideri, bisogni, necessità, sentimenti umani.
Invece, i nostri sentimenti sono nostri, i nostri dolori sono nostri, le nostre esperienze sono nostre. Nostre e di nessun altro. Lo stesso dicasi, all’opposto, di ciò che nostro non è. Il dolore dell’altro è dell’altro e così i suoi sentimenti, le sue passioni, le sue paure, i ricordi che fanno male.
Non è possibile valutare quello che riguarda altri con criteri che sono nostri. Non possiamo azzardarci a dire: “Non è così importante. Non è veramente come quella persona vuole fare credere. Si tratta di una cosa di poco conto”. Un atteggiamento di questo tipo non può che provocare, di conseguenza, uno stizzito :”Tu non capisci!”. È inevitabile! Mancare di empatia, mortificare la profonda diversità che l’altro apporta nel mondo, ferisce l’altra persona. E questo, purtroppo, avviene spesso, anche tra colleghi, amici; anzi, spesso, proprio questo è motivo di frattura o anche solo di tensioni all’interno di una coppia: l’incapacità di guardare all’altro in modo empatico, comprendendo come difficilmente chi non ha vissuto sulla propria pelle certe cose possa darne una valutazione. In certe cose, l’oggettività non può essere raggiunta. Tra queste, un posto principe meritano le sensazioni: potranno essere condivise con gli altri, in certa misura: eppure ,mai potranno essere pienamente “travasate” da una persona all’altra.
Ogni persona mantiene chiuso in sé parte del proprio mistero, che non sarà mai completamento svelato.
Così, se da una parte riscontriamo come vera l’origine di tutto il dolore nella separazione, dall’altra siamo legati a doppio filo alla necessità di una distanza.
Per la nostra stessa sopravvivenza, noi abbiamo bisogno di quella reciproca, seppur minima, distanza che garantisca il nostro essere noi stessi.