Un’immagine emblematica a raccontare l’Italia: la salma protetta da un giubbotto giallo – simbolo degli uomini/angeli della Protezione Civile – e attorno, aggrappate come ostriche sullo scoglio, un pugno di persone dignitose e composte. Anche sul Golgota, a reggere il peso della prima Croce della storia, non c’era la folla di Gerusalemme ma la solitudine composta di Maria di Nazareth e del discepolo prediletto. Da quel giorno, il primo Venerdì Santo della storia, tutte le croci hanno lo stesso peso e lo stesso valore. La morte di Sandro Usai – il soccorritore travolto e ucciso dalla valanga di fango mentre tentava di salvare altre vite – non avrebbe dovuto valere meno di quella di un alpino morto in Afganistan, di un pilota deceduto sul grigiore di una pista, di un prete caduto sul campo di battaglia. Eppure attorno alla bara non c’erano le file di politici “da passerella”, non si sono incrociate mitrie e pastorali di cardinali eminentissimi, non s’è avvertito l’eco di nessuna campana che ci ricordasse il valore di chi stavolta ha dato la vita per amore. Gliela conferirà Giorgio Napolitano la medaglia d’oro al valore civile ma questo non toglierà al popolo semplice il sospetto che anche nella nostra nazione le morti debbano sottostare ad una graduatoria dettata dalla popolarità che potrebbero assicurare in mondovisione.

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Eppure dentro la nudità composta di quel feretro è racchiusa l’immagine suggestiva di quell’Italia che con le mani nel fango s’intestardisce a lottare contro la disperazione: per salvare la bellezza, la dignità e le ferite di un popolo graffiato quotidianamente da intemperie naturali e morali. La morte è da sempre l’altra faccia della vita: come la luna vive confrontandosi con il sole, la vittoria duellando con la sconfitta, la gioia rubando terreno alla disperazione, la gazzella fuggendo dal leone: ogni cosa vive col suo opposto davanti. La morte di Sandro è la morte di una fetta di nazione che non fa notizia, che nemmeno è nata per fare notizia, di un popolo abituato a scrivere pagine di Vangelo senza magari frequentare le chiese costruite dai preti. Sono storie silenziose e laboriose, graffiate e convincenti, infangate e passionali: perché nessuno ha un amore più grande di colui che è disposto a dare la vita per i propri amici. Costoro rimangono l’unico Vangelo che la gente legge ancora, l’ultimo messaggio di Dio scritto in opere e parole.
Chissà se un giorno qualcuno s’azzarderà di dedicare pure a quest’uomo dal volto di periferia qualche menzione d’onore dentro le fumose liturgie del nostro cristianesimo. Sarà molto più probabile che rimanga confinato per sempre nel fondo di uno sperduto cimitero della natìa Sardegna. A ricordarci che i veri eroi rimarranno sempre quelli dipinti da Cristo come i protagonisti dell’unica grande Storia che conta: quella che verrà scritta da coloro che la gente non considerava tali ma che nel nascondimento hanno saputo individuare un valore così grande da ritenere la loro vita degna d’essere messa in gioco.
Il rombo dei motori per Marco Simoncelli, il suono del silenzio per un militare ucciso, il gregoriano severo per un Papa tornato Lassù. Ogni morte ha i suoi simboli, le sue liturgie e i suoi silenzi. La morte di Sandro Usai trattiene il lineamento più bello: quello che richiama la prima Croce, quella del Golgota. Quel giorno fu il primo di mille altri in cui il verbo morire divenne sinonimo del verbo amare.
Anche lassù Dio morì solo come un cane. Eppure riaccese la Storia.

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