trenoregionale

La prima volta che mi sedetti e ascoltai una sua lezione, m’accorsi d’esser stato già rapito dalla passione: era una porta che si apriva all’improvviso proprio là, dove neppure avrei potuto immaginare. La mattina nella quale difesi la tesi di dottorato, mi spedì all’alba un sms: «Adesso dimenticati tutto. Ricorda questo: “S’impara solo divertendosi” (A. France)». Entrai per l’ultima volta all’università e un’immagine s’affacciò alla memoria: il mio primo giorno di scuola. Fu nell’anno della grande nevicata, il 1985. Anche quella mattina, senza che lo sapessi, sulla porta della scuola una donna m’attese: mi sentii importante. Era la mia maestra: pure lei, ignara di ciò che sarebbe stato di noi, fece l’identica mossa che, ai miei occhi, le valse il Nobel dell’insegnamento: mi fece capire che, prima di tutto, da quel mattino ci saremmo potuti divertire assieme. Per poter rischiare d’imparare.
Sono settimane che mi rallegro nel guardare Nicolò: domattina sarà il suo primo giorno di scuola. Lo vedo tutto allegro: lo zainetto, i quaderni, le penne, le matite. La sua voglia matta d’iniziare a diventare grande, di scrivere la sua firma per sentirsi autorevole. Lo guardo e, guardandolo, penso a quant’è stata grande la mia fortuna: in compagnia della prima maestra e dell’ultimo prof, era come se si vivesse sempre al centro d’immense forze passionali. Penso al giorno in cui, insegnandoci a scrivere il nome in bella calligrafia, la maestra ci disse: “Il nome è il serbatoio delle vostre energie”. Penso a quando, spiegandoci la teologia col linguaggio dei bambini, il mio prof-irlandese difendeva la causa del desiderio da quella della conoscenza: “Non si capisce se prima non si desidera”, fu l’essenza della sua leggiadria. Penso che, pur amandomi, non hanno mai voluto diventare miei amici: la distanza che mantenevano, però, era una distanza puramente intellettuale. Penso a loro due e capisco che ci sono due tipi di professori che frequentano le scuole: quelli che prendono-a-prestito la vita, con lo stesso agio con cui s’affitta casa, e quelli che la vita la posseggono. Penso ai secondi e non posso non pensare che «ogni cosa che ho imparato dalla viva voce degli insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha insegnata. Nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine» (E. Canneti). Fissavano gli oggetti che li affascinavano senza lasciarsi minimamente distrarre da loro. Geniali.
Nicolò l’altro giorno s’è fatto un regalo stupendo: ha voluto lo portassero a Trento con un treno-regionale: “Abbiamo fatto un sacco di fermate, mamma!” ha detto appena tornato a casa. I treni-regionali, quelli ribattezzati “carri bestiame”, per Nicolò sono i più belli: fanno un sacco di fermate, le più elementari, quelle di paese in paese. Penso a quando imparai la grande storia del mondo ripetendo la mia piccola storia di paese: l’anno ch’è mancata la nonna, la stagione della vendemmia, il mese della sagra, il giorno del mercato, l’ora della messa. Penso che, vedendoli all’opera nelle piccole cose, quell’uomo e quella donna m’abbian convinto di una cosa: che chi dedica la vita all’arte, debba rinunciare alla felicità dei comuni mortali, per farsi felici di ciò ch’è per loro l’essenziale. Penso che un motivo ci dev’essere se di chi insegna si dice “professore”. Ha la stessa radice di “professare”, il verbo della fede. Si professa la fede, una materia, un amore.
Penso. E penso che, se penso, è perché mi hanno insegnato a pensare. A viaggiare col treno-regionale delle cose elementari per poi poter prendere l’alta-velocità delle cose universitarie, senza perdersi l’incanto delle fermate di paese, delle cose quotidiane. Chiedo scusa a tutti i bambini che, domattina, magari non troveranno una maestra così, un prof come il mio: vi chiedo scusa se sono stato fortunato. Giuro che tra i due, tantissimi han tentato d’imitarli, senza per questo riuscirci: erano in difetto di entusiasmo. Ho dimenticato ben presto il loro nome, perché non vollero mai credere che s’impara solo divertendosi.

(da Il Mattino di Padova, 11 settembre 2016)

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