Il fatto che quando si ritrova il cadavere di un coniuge la prima persona ad essere inquisita sia l’altro coniuge – o uno della famiglia – è figurativo di quello che si pensa della famiglia. Poi guardo dentro casa mia, ch’è l’unico punto prospettico a me accessibile per non ragionare a vanvera, e mi salta all’occhio un’instantanea: attorno al tavolo, la sera, ci sono delle persone che stanno aspettando d’esserci tutte per iniziare a cenare. Fossero sempre cene di pesce – non per forza ostriche, ma più facilmente pesce da quattro soldi – potrei dire che papà è l’appassionato della pesca e la mamma è quella che cucina il pesce: gli altri – io e mio fratello -, siamo quelli che mangiano il pesce pescato da papà, che mamma ha cucinato. Uniti i tasselli, mi appare il quadretto di casa nostra, una casa da Mulino Grigio, non bianco: sono nato e (soprav)vivo in una di quelle famiglie che, quando le si vuol sfottere, le si definisce “tradizionali”. Per me, famiglia tradizionale significa nascere, crescere assieme. Un’alternanza di figlio, fratello, cugino, nipote. Zio.
Ognuno, pensando la famiglia, parte dalla prima immagine di famiglia che ha: la sua. Conosco delle persone che, figli unici, dicono che la cosa più bella al mondo sia non dover spartire la propria cameretta con nessuno. Ne conosco altri, rispettabilissimi, cresciuti a metà strada tra il padre e la madre: mi dicono che, a crescere in famiglie allargate, si allarga anche la mente. Mi dicono tante altre cose, che penso sempre autentiche. Quando, però, le metto accanto, scopro d’essere stato fortunato nella mia sfortuna. La sfortuna di crescere condividendo malattie e dentifricio, rubandosi le caramelle, buttando fuori dalla cameretta (condivisa, ovvio!) ciascuno le cose dell’altro, insultandoci e abbracciandoci in simultanea. Prestandoci dei soldi senza mai più riaverli. Non ho scelto io di dover crescere con un fratello, non ho manco potuto scegliermi una mamma tagliaS o un papà col ciuffo lilla. Però è ciò che mi sono trovato che sta facendo di me quell’uomo che, tolto proprio qualcosina, è il massimo che avrei potuto essere.
Il mio massimo possibile. Non il migliore del mondo.
Oggi che le nascite calano (purtroppo, da prete, non posso essere di aiuto alla causa!), che i fratelli sono più rari dei condor della California, che si chiama “famiglia” anche una persona che vive da sola in un monolocale, tutto questo mi fa capire che la più grande avventura, oggi, non sia quella del celibato ma quella di fare famiglia. Da prete, per contratto, mi obbligano alle metafore: “La Chiesa è famiglia (con fratelli coltelli). La parrocchia è famiglia di famiglie (poi, però, ci si squaglia). Fratelli tutti (dunque di nessuno)!” Queste incantevoli metafore sono però metafore: paragoni, immagini, rapporti che si assomigliano, assonanze. La vera famiglia, oggi, è l’avventura di rischiare il mescolamento delle libertà: ed è mescolando le libertà tra di loro, fino a farne una coagulazione di sangui, che la famiglia a qualcuno potrà apparire una ragnatela, a qualche altro un fiore, forse per qualcuno una tomba, un castello o, magari, una prigione. È, comunque, un qualcosa che hai fatto nascere tu: prima non c’era, adesso c’è, è nata grazie alla tua collaborazione. Mi inginocchio, per fede, davanti al Santissimo: però anche davanti alle mamme e ai papà, perchè governare una famiglia è quasi come amministrare un condominio. Un’impresa che, forse, più che disgusto arreca spavento, incertezza. Anche un’allegra allergia: “Meglio prevenirla che curarla!”
Mio fratello, per il solo fatto d’essere nato, potenzialmente potrei accusarlo di “sottrazione di libertà”. Ha limitato assai la mia libertà d’azione, ovunque: dagli affetti, passando per la camera, attraverso il frigo, finendo per corrodere il mio più grande sogno, dopo la pensione, che è l’eredità. Poi, però, penso che la divisione m’ha allenato a condividere: allora accetto d’essere nato in un famiglia tradizionale, a trazione agricola, ustionatasi con la disoccupazione di papà, e rettasi in piedi grazie al cuore e alla pensione della confraternita più applaudita del mondo: i nonni. Per il fatto di aver dovuto (con)dividere tutto, ho conosciuto la differenza tra casa e famiglia: casa è avere un posto dove andare, famiglia è avere qualcuno d’amare. Da noi, unendo “un po’ di tutto”, scopro (tardi) di avere tutto: una famiglia, in una casa. Più l’orto. Quando mi alzo, vedo Alpi e laguna: cosa posso desiderare di più?
Dimenticavo: “La Chiesa è una famiglia”. Davvero? Se per famiglia intendo quel luogo dove peggio ti comporti e più ti amano, allora la Chiesa è davvero la mia famiglia ideale. Ogni tanto è un disastro, ma non ci fosse mi sentirei solo. Il fatto è che, come succede a casa, ogni tanto bisognerebbe rimanere senza la connessione internet (delle chiacchiere) per qualche ora, per conoscere quelle persone stupende che siedono ci siedono accanto e che sono la mia famiglia.
(da «Specchio» de La Stampa, 17 aprile 2022)
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