fienagione

Nella stagione degli alpeggi, tra fienagioni e mungiture, il vero guadagno del malgaro non era tanto il denaro che si ricavava, ma un fattore ancor più nobile e ambito: notare che quel cliente tornava ad ogni stagione perchè quel formaggio era il più buono, il burro teneva una squisitezza come in nessun altro posto. Il denaro era la conseguenza di una passione divenuta mestiere e speziata di mille segreti, tramandati di generazione in generazione: come eredità da tutelare nei secoli a venire. Il motivo lo conosce la gente dabbene di montagna, quella che gareggia e guerreggia con stagioni e lune, sperandole sempre a favore: non è vero che l’unica cosa che conta è dove un uomo possa arrivare. E’ più affidabile il contrario: ciò che veramente importa è il luogo dal quale uno proviene. Che poi non è solo uno spazio geografico, un intervallo di tempo, una questione di sangue: è piuttosto una memoria da custodire gelosi, un tesoro di narrazioni e di racconti che lentamente diventa storia, vecchi precetti capaci di fascinazione. Mestieri umilissimi – tra stalle, fienili e alpeggi – ma capaci di fare luce sull’essenziale, che “non sono né le gioie intense del mestiere, né le sue miserie, né il pericolo, ma la prospettiva a cui innalzano” (A. de Saint-Exupéry). Un cantuccio dell’anima al quale volentieri si rincasa: per sentirsi meno soli, per ri-attingere acqua alle sorgenti, per sentirsi figli di una storia che proviene da lontano. E che andrà oltre la nostra storia.
La memoria non è amarcord. Chi ama quest’ultimo, quando parla del passato lo fa con fare malinconico, stritolato dalla nostalgia di momenti ormai lontani nel tempo. Il suo presente diventa un’avvilita narrazione di ciò che ieri c’era e oggi non c’è più. Chi, invece, è capace di memoria quando parla del passato lo fa con affetto, con simpatia, forse anche con riconoscenza; ma dal passato trae la forza per compiere un passo avanti, per prendere quel pezzettino di storia – scritta dai suoi avi, ereditata dai suoi casati – e farla conoscere anche alle generazioni future. Quanto sarebbe triste la vita di montagna se un casaro continuasse a raccontare quant’era bravo suo nonno, quant’erano propizi i vecchi tempi, quant’era passionale l’alpeggio secoli addietro: non nascerebbe burro, le vacche non verrebbero munte, la malga somiglierebbe tanto ad un cimitero di ricordi. Ad una narrazione di ciò che c’era e non c’è più. Essere gente di memoria, invece, è essere capaci di trasmettere ciò che a sua volta s’è imparato: a scomporre i petali di una genziana introducendo ai misteri della natura, a leggere dietro le scorribande delle nuvole i segni di una mutazione, a gustare l’ebbrezza del latte appena munto che nasconde il frutto del lavoro. La memoria del passato come trampolino verso il futuro: per uomini che vivono nel presente.
Oggi, anche dentro le chiese assonnate e sonnolente, si preferisce l’amarcord alla memoria. Eppure il cristianesimo è la patria della memoria: un fare memoria del passato per trovare l’ardire di organizzare il futuro, giocandosi il presente, da protagonisti. C’è gente ch’è stanca di sentirsi dire che il passato era bello, che le adunanze dell’oratorio erano una festa, che a messa ci si andava senza fiatare. Oggi l’ultimo amarcord che regge è forse quello estivo di “mamma” Rai: siccome mancano programmi, mandano in onda vecchi pezzi d’autore, strappalacrime. Così, tanto per intrattenere un pochino. La memoria è tutt’altra cosa: è lo stile di chi, debitore di un passato dal quale proviene, ne è così innamorato da arrischiarsi qualcosa per farlo conoscere anche nel futuro. Il passato, un mestiere, la propria storia. Chi ama l’amarcord è come il guardiano di un cimitero. Chi sposa la memoria è come l’ostetrica di un ospedale: aiuta la mamma a far sorridere la vita.

(da L’Altopiano, 1 febbraio 2014)

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