Da qualche giorno a questa parte sono tristemente costretta a ritrovarmi priva di un compagno fidato, di un grande alleato, seppur ogni tanto travestito da perfido dittatore.
Il mio orologio da polso, inseparabile amico, consultato con frenesia durante le attese ed i tragitti sui mezzi pubblici.
Nonostante i vari supporti alternativi dati dalla tecnologia, leggasi telefono cellulare in primis, la sensazione di spaesamento è ancora ben lontana dal volersene andare. Anzi, temo che deciderà di alloggiare da me in pianta stabile per tutto il tempo necessario alle dovute riparazioni. Il grottesco mi attende in agguato dietro l’angolo ogni volta che sollevo la manica per dare un’occhiata al polso, ovviamente vuoto: è un’abitudine dura a smorzarsi e combatte tenacemente contro l’evidenza di una mancanza.
Da dove deriva tutto questo disagio?
La risposta, lo ammetto, ancora non l’ho trovata e nel frattempo mi ritrovo ad invidiare coloro con animo serafico fanno mostra di saper fare a meno di quest’aggeggio che a seconda dei casi sa tramutarsi in amico o in nemico implacabile.
Anche il tempo, come ciò che lo misura, ha la medesima, duplice valenza. Le modalità di percepirlo sono due facce della stessa medaglia e così l’oggettivo scorrere degli eventi non risponde quasi mai alle leggi della matematica quando entra nella sfera del soggettivo.
I sessanta minuti che trascorriamo con una persona amata non sono mai gli stessi minuti in cui stiamo sulla sedia del dentista, ad esempio. Identici nella forma, ma non sicuramente nella sostanza, pur essendo governati da un ritmo ben preciso essi dipendono strettamente da noi e dal nostro stato d’animo.
Da piccoli il tempo è qualcosa di strettamente semplice. Adesso, oggi, domani, lunedì prossimo, l’anno scorso. Più si cresce più ne aumenta la percezione. Cento anni fa, tra un milione di anni, quattro miliardi di anni fa. Un po’ come le increspature circolari sull’acqua, che diventano via via più ampie quando ci si allontana dal centro: con la crescita e la conoscenza si diviene maggiormente in grado di allontanarsi dal proprio presente con l’idea del passato e del futuro.
C’è però qualcosa che rimane sempre fuori dalla nostra portata, indipendentemente da qualsiasi mezzo di misurazione del tempo: l’eternità. Quel mistero che racchiude in sé passato, presente e futuro e che non ha mai fine. Da capogiro, perché lì vi abita l’idea di un infinito che la nostra percezione non riesce a contenere.
La Misericordia ha stabilito la propria dimora nell’eternità, in quel tempo che è al di fuori dal tempo, dimensione che è un abbraccio collettivo e che non si lascia sfuggire nemmeno il più piccolo stelo d’erba.
“Io Sono Colui Che è”, disse Dio, rivelando da un roveto ardente il proprio nome dinanzi ad un Mosè discretamente titubante all’idea di diventarne il portavoce ufficiale. Una frase, quattro lettere imbevute di sacralità tale da diventare impronunciabili tutte insieme, a meno di aggirare l’ostacolo e trovare per esse un valido sostituto, Adonai.
Io Sono.
Più eternità di così non è possibile.
Io Sono. Non solo. Io ci sono.
La Misericordia è eternità che non solo ha doti da acrobata, ma è anche campionessa universale nei tuffi dal trampolino più alto che ci sia, il tempo che è al di sopra del tempo. Non ha alcun timore a saltare nel tempo misurato che è la nostra esistenza qui ed ora.
Un tuffo carpiato con elevato coefficiente d’amore, un salto che divenne mortale, letteralmente, un venerdì lontano, dopo più di sei lustri passati in veste umana. Il suo tempo oggettivo furono poco più di trent’anni, ma c’è da chiedersi come fu quello soggettivo, se gli attimi nella piccola bottega di Nazareth scorrevano veloci o se gli istanti lungo il lago di Galilea si erano accordati per sciabordare lenti e ritmati, come le onde che s’infrangevano sulla riva mentre le folle ascoltavano la Parola.
Io ci Sono. Ovvero, Io Sono sempre te.
È per questo che, ancora una volta – come un padre che accompagna il proprio passo di adulto al piccolo passo di un bimbo – si compie il tuffo dal trampolino e l’eternità accetta di farsi misurabile, per giunta nel numero di 365.
Una per ogni giorno dell’anno, infatti, sono le volte in cui nella Bibbia è scritto “non avere paura”/”non temere”.
Non avere paura perché Io ci Sono.
L’infinito si lascia racchiudere dalla finitudine di in invito quotidiano, ripetuto per ogni giorno della nostra vita, instancabilmente.
Una cosa da pazzi, questa matematica di Dio, per la quale nessuna equazione tra eterno e momentaneo è impossibile, ma anzi è desiderata con Misericordia.