bambino
Non mi costa nulla ammetterlo: sono rimasto innamorato della mia maestra, quella che mi ha preso bambino quando non avevo ancora compiuto sei anni. A Calvene, le maestre, tutte quelle che hanno preso cattedra al nostro paese (ch’è più bello di New York), hanno ricevuto in dote da madre natura il dono d’essere un po’ visionarie: insegnare significa non far conto dei frutti di una giornata di lavoro: l’insegnamento è invisibile e rimane così per anni, fossero venti. Pur sapendolo, però, loro insistono nell’accendere la passione: «L’insegnamento è il più grande atto di ottimismo» (C. Wilcox). Ancora oggi, a tre decadi di distanza da quei giorni, quando ci incrociamo tra vecchi compagni di scuola, si ritorna volentieri a quegli anni.
A quei volti, a quella spensieratezza.
Il complimento più bello, però, uscì dalla bocca di una mamma. Lo scrisse un mio compagno in uno dei soliti temi d’italiano d’inizio anno: “L’estate è finita: raccontami com’è stata la tua”. Lui, nel tema, ci infilò una frase della mamma, sfuggitale forse all’insaputa, oppure no: “L’estate è il momento dell’anno in cui i genitori si domandano come facciano le maestre, tutto l’anno, a sopportare i bambini. Riuscendo a insegnare loro qualcosa, tra l’altro”. Fossi una maestra, considererei questa frase una sorta di Premio Nobel per l’insegnamento. È sempre stato così, davvero: tant’è che sul finire di agosto non vedevamo l’ora di ritornare in classe: di quegli anni ricordo le scorte di divertimento fatte. È stato merito loro: erano così capaci a insegnare, da intuire che cinquantacinque minuti di lavoro, più cinque di risate, valevano il doppio di sessanta minuti di lavoro fatto tutto senza un sorriso. La scuola elementare è stata la mia università.
L’unico intoppo fu alla fine della IV elementare: l’Assunta decise di andare in pensione. Non aveva ancora quarant’anni, stava vivendo una stagione lavorativa gratificante, aveva come scolari gente che ogni maestra si sognava di notte. Invece, niente: la tentazione del ministero la vinse sul nostro insistente affetto. Ci lasciò così, da soli, mentre all’orizzonte iniziava a stagliarsi severo l’esame di V. L’abbiamo vissuto come una sorta di tradimento, di abbandono, come una separazione. Il giorno in cui ci diede l’annuncio, fu come se ci stesse spiegando l’unico complemento di luogo che non aveva mai affrontato in classe: chissà perché, poi. Ne appresi l’esistenza da solo, alla scuola media: lo tenni per sempre (col)legato alla pensione anticipata della mia maestra.

 «Il complemento di allontanamento, anche complemento di separazione, è una fattispecie del complemento di moto-da-luogo. Indica il luogo, la persona, la situazione o la cosa da cui qualcosa o qualcuno si allontana o separa, in senso concreto o figurato. Risponde alle domande: “Da chi? Da che cosa? Da dove?».

Ricordo che abbiamo pianto l’ultimo giorno di IV elementare. Per lei, per noi: non sapevamo chi sarebbe stata la nostra maestra l’anno seguente, quello delle prime grandi scelte. Ma sapevamo che lei ci sarebbe mancata: dopo la mamma e la nonna, c’era lei. “Morto un papa ne fanno un altro”, dicevano i nonni nell’atrio di scuola: avendo attraversato due guerre, ridevano di fronte alla nostra paura. Che, però, era più gratitudine: eravamo cresciuti con una donna che ci aveva insegnato l’arte della semplificazione (“Sembrava tutto un gioco”, mi confidò un’amica anni dopo, ripensandoci), senza essere semplicistica. Pare poco?
Dopo l’estate tornammo a scuola tutti curiosi. E quando entrò la Rosanna, ci sembrò che non fosse cambiato nulla. L’avevamo vista molte volte nei corridoi: era stata la maestra dei più grandi, amica dell’Assunta. Seppe entrare in punta di piedi, come chi danza, in quegli animi bambini che stavano rielaborando il complemento di separazione: non era semplice, non siamo mai stati cervelli facili. Ricordo il suo esordio: “So bene che siete un po’ tristi: inizia un nuovo anno senza la vostra maestra. Io non voglio sostituirla, però sono molto felice di essere la vostra nuova maestra. Vi lancio una sfida: dimostratemi tutto il bene che si dice di voi, fatemi vedere quante cose avete imparato finora: abbiamo un anno di tempo, poi tireremo le somme”.
Sfidati, andammo a nozze col grembiulino addosso.
Ci siamo guardati senza guardarci: Rosanna era l’evoluzione naturale della specie dell’Assunta. Appassionata e certosina, seppe trovare il suo posto nel nostro presente senza rubare spazio al nostro passato. Mai temette il paragone: era cosciente di ciò che valeva. Si allineò alla prima maestra, in quell’arte che è solamente delle persone giganti: ci insegnarono a dubitare anche di quello che insegnavano, volevano che imparassimo a fare un buon uso del nostro cervello.
“Hai visto che quella volta ho fatto la cosa migliore? – mi disse, anni dopo, l’Assunta ripensando alla nostra separazione –. Il fatto d’essermi allontanata da voi vi ha permesso di fare un salto di qualità in più. Di confrontarvi, fin da subito, con gli imprevisti. Vi siete fatti le ossa. Fossi rimasta fino con voi fino alla fine, magari non sareste diventati ciò che siete”. In pratica mi fece un ripasso veloce del complemento di allontanamento o di separazione: l’unico che non ci aveva spiegato in III elementare, l’unico che ci costrinse a imparare nel fare i conti con le trasformazioni della vita.
Finita la scuola elementare, ho fatto la valigia e sono partito alla conquista dei miei sogni. Allontanandomi, separandomi, da casa mi sono portato, nel cuore, l’essenziale: la “mia” scuola. Dentro c’era tutto: gli amici, il paese e le sue tradizioni, la gente con il suo accento tutto particolare. Mi sono cucito addosso le mie maestre, l’Assunta e la Rosanna: con loro vicino, esplorare il mondo non mi avrebbe più fatto paura. Mi avevano allenato al mestiere di vivere: ero ormai pronto per tentare di volare. D’allora non mi hanno mai lasciato da solo nei miei voli rischiosissimi: un messaggio, una telefonata, un incitamento. “Sono fiera di essere stata la tua maestra. Ricordati sempre di me, anche se quella volta vi ho abbandonato”, mi ha scritto un giorno l’Assunta. “Non sei-stata, lo sei ancora” le ho risposto. Loro due assieme: una mi ha fatto sperimentare il complemento di allontanamento, l’altra apprezzare il fatto che senza quella separazione forse non avrei mai imparato a gestire gli imprevisti.
Non sarei diventato ciò che sono.
Quando le incrocio, le vedo invecchiate rispetto a quei giorni: “Le candele si consumano per illuminare la strada” recita un proverbio turco. Nel volto, però, campeggia quel che appariva allora: hanno risposte suggestive a domande che devo ancora fare loro.
Dentro ogni scarpa c’è un artigiano all’opera.

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