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Possiamo pensare – sicuramente, più di una volta l’abbiamo pensato – di poter ingannare chiunque (persino Dio stesso!). Questo pensiamo, quando s’impadronisce di noi la certezza di essere i più furbi, i più veloci a ragionare, gli unici che davvero capiscono come va il mondo e che – con un pizzico di cinismo – possono contrastarne le logiche perverse, avendone la meglio.
Davvero è così?
L’oracolo di Isaia mette in discussione questo delirio onnipotente che, inevitabilmente ci coglie, con alcuni passaggi che non lasciano scampo:

Un oggetto può dire del suo autore: «Non mi ha fatto lui»? E un vaso può dire del vasaio: «Non capisce»? (Is 29, 16)

Dio è quel Totalmente altro, che, però, ci conosce nell’intimo. Non possiamo illuderci di poterlo fregare. Tuttavia, questa consapevolezza non dev’essere vissuta in modo inquietante: Dio sa qualunque cosa faccio e dico, quindi, sono spacciato, non c’è salvezza. È vero il contrario. Proprio perché a Dio non sfugge nulla (Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli – Sal 56, 9), possiamo confidare in Lui. Niente di noi gli è nascosto. Solo chi ha qualcosa da nascondere può averne paura. Se niente gli è nascosto, significa che Lui conosce le nostre vere intenzioni, anche quando tutti gli altri sospettano e adducono secondi fini alle nostre scelte. Se niente gli è nascosto, anche il più piccolo dei nostri pensieri od azioni d’affetto, di com-passione, di solidarietà andrà perduto. Nulla, assolutamente nulla di tutto ciò sfuggirà al suo sguardo od al suo ascolto. Non una lacrima, non una preghiera, non atto di silenzioso coraggio, di pertinace perseveranza laddove sembra dimenticato da tutti. Ma non da Dio.

Lo spettacolo, in realtà, era così terrificante che Mosè disse: «Ho paura e tremo». Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele. (Eb 12, 21-25)

C’è un’incomprensione, di fondo, in quel termine che torna in auge ad ogni Cresima, per inquietarci un po’, salvo poi, il più delle volte, ritornare nel fraintendimento. È il timor di Dio. Che non è la paura di Dio. Ma la consapevolezza di essere creatura nelle sue mani. Mani di Padre, non solo di Creatore. Braccia di Padre che sollevano il figlio fino alla propria guancia (Os 11, 4).
Allora, ecco: con questa consapevolezza, essere tra le mani di Dio non è più fonte di terrore, ma motivo di confidente e fiducioso abbandono, tra braccia forti e sicuro, capaci di accogliere, cullare, calmare, placare il pianto, ma, anche rimettere in piede e condurre di nuovo sul campo di battaglia.
Perché Dio non ci toglie nulla di ciò che umano, ma ci dona tutto il suo coraggio ed il suo amore, affinché possiamo affrontare ogni cosa in Lui.   
Nell’Antico Testamento, il tremendum divino è affascinante e spaventoso. All’epoca di Mosé, l’uomo non è – forse – ancora pronto per poterLo guardare negli occhi, faccia a faccia. In Cristo, questa distanza è come colmata: assunta su di sé la nostra carne, solidale con noi in tutto, tranne che nel peccato, in Cristo possiamo ammirare il paradigma dell’Uomo. Cioè, com’è l’uomo nell’immagine che ne ha Dio. Quello che Lui può vedere, quando ne scrosta l’iniquità e la povertà dovute alla sua condizione. Cristo è l’Uomo, in versione «restaurata». In Lui, l’alleanza, ritrovata, ci consente di vedere, con una nuova luce tutto quello che ci circonda: noi stessi, gli altri e Dio. I nostri occhi non sono più sovrastati dal fango della disperazione, ma possono – finalmente – guardare con speranza ad un futuro di Comunione, con Dio e coi fratelli, chiamata universale che alberga nel cuore di ogni uomo, anche in chi è ancora inconsapevole del progetto di salvezza del Padre.

«Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3, 29)

L’immagine che ci regala il Vangelo di Giovanni (quello che regala maggior spazio al Precursore, di cui la Chiesa Ambrosiana ha ricordato il martirio mercoledì scorso) è un piccolo cammeo. Visualizziamo un matrimonio, con la sua festa sgargiante e colorata, di cui quasi non ricordiamo l’allegria, a causa delle tante restrizioni imposte. Non solo c’è gioia: c’è musica, ci sono danze; non solo in Israele, ma anche in Italia, in molti  luoghi, è tradizione ballare fino all’alba. In un matrimonio non avviene solo un rito che cambia lo stato delle cose (i due diventano una carne sola): assistiamo al preludio di una condizione che si svolgerà nella quotidianità di ogni giorno. Perché il giorno del matrimonio è sempre solo il primo di un lungo cammino che gli sposi sono chiamati a percorrere insieme.
Giovanni Battista, cugino di Gesù, si vede come amico dello sposo. Non vide direttamente la gioia. La assapora – come amico –  quasi di riflesso, negli sguardi che gli sposi si regalano reciprocamente. Lo sposo alla sposa e la sposa allo sposo. S’inserisce, con discrezione, tatto, delicatezza, eleganza, in questo circolo di sguardi solo per bearsi di quella gioia che allude ad una pienezza ancora da assaporare (insieme a qualche amarezza). Vede, in quello scambio di sguardi quell’amor che move ‘l sole e l’altre stelle che, solo, dà senso a questa scelta che è – in ogni caso – sempre e comunque un salto nel buio, fiducioso nell’altro e nel Terzo che è Dio. Senza questa fiducia altro non è che una follia insensata.
Perché l’essere umano è fragile, incapace di perseverare. Desideroso di farlo, ma così facilmente soggetto a cadere, sbagliarsi, lasciarsi andare a ciò che è più facile, invece che seguire ciò che è giusto, ma costa un prezzo in fatica e sacrificio, in rinuncia a qualcosa di sé, pur di vedere spuntare un nuovo sorriso, tra le fossette del volto dell’altro.
L’amico dello sposo, se animato da vera amicizia, pregusta ciò che l’amore predispone nel cuore dello sposo e gioisce per lui e con lui, perché capisce che c’è una pienezza che – in quello sguardo – sta prendendo forma e richiama già realtà che superano l’umano.
Forse, quest’immagine è un richiamo forte all’autenticità e al sapere gioire davvero – e pienamente – delle gioie altrui, abbandonando ogni invidia, maldicenza, gelosia. Tutti sentimenti che sporcano la purezza di quei sentimenti che sgorgano dal nostro per il desiderio del bene, ma sono – continuamente – attaccati dalla nostra concupiscenza a vedere il male in quella gioia altrui che non riusciamo a vivere come se fosse nostra.


Rif. letture festive ambrosiane, nella I Domenica dopo il martirio di Giovanni il Precursore, anno B (Isaia 29, 13-31; Eb 12, 18-25; Gv 3, 25 – 36)

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