“Ora basta!” dice Elia e va a sedersi sotto una ginestra.
“Ora basta”. Un profeta che pensa di comandare. Non è buffo?
Buffo come lo siamo noi, quando ci illudiamo che tutto ci giri intorno. Come lo è Giona, che si illude di poter dare istruzioni a Dio su quali siano le migliori strategie di marketing: Ma Signore, li hai visti i niniviti? Brutta gente, quelli… proprio là mi mandi?
E, controvoglia, disimpegnato al massimo, riesce a convertirli tutti, che, non solo si convertono, ma decidono di vestire il sacco e fare penitenza tutti, “dal più grande al più piccolo”, quale segno di pentimento per i propri tanti e gravi peccati. Quasi a certificare che non è a noi che sia da ascrivere il successo di un’azione ispirata da Dio, bensì a Dio stesso, artefice e perfezionatore di ogni cosa, che “porta a compimento la propria opera” (Sal 137). Il più delle volte, non tanto grazie a noi, ma, piuttosto, a dispetto della nostra insufficienza e, persino del nostro remarGli contro.
Ginestra… non ci ricorda nulla? Sì, proprio lei: la famosissima pianta di Leopardi. Una vecchia conoscenza liceale che fa capolino sempre nei momenti più inopportuni. Per ricordarci che, talvolta, la perseveranza, non è solo un fastidio. Lo è, senz’altro, quella dei rovi, che si ostinano a contrastare il nostro lavoro di pulizia di prati e cortili. Eppure, dalle piante possiamo imparare tante lezioni. E quella sulla perseveranza non è certamente l’ultima.
È curioso, anzi: quasi paradossale, che la pianta che, per Leopardi, è il simbolo della perseveranza umana contro le avversità della vita, sia proprio ciò che Elia ricerca quale alleato alla proprio inadempienza. È all’ombra di una ginestra che si siede e, non pago, pronuncia il suo “Ora basta” di fronte a Dio, a sancire il proprio ammutinamento. Il proprio “non ci sto più”. Sotto la ginestra si corica e si addormenta con il desiderio della morte nel cuore.
Cos’è questo desiderio della morte? Il desiderio della morte è – forse – ciò che noi ora chiamiamo – forse anche in modo un po’ troppo esteso ed allargato rispetto al suo significato originario e preciso – depressione. “È depresso” diciamo, infatti, al vedere qualcuno un po’ già di morale. Il desiderio della morte è sicuramente di più: più profondo, più difficile da risolvere, più problematico, più preoccupante.
Elia, forse, s’illudeva davvero che la propria vita sarebbe finita in quel modo. La morte per inedia non è senz’altro una fine onorevole o gloriosa, ma – si sarà detto – “tutto sommato, all’ombra di una ginestra, anche questo assume un sapore più poetico e sopportabile”.
La storia di Elia s’intreccia con quella del suo popolo, tra passione per Dio ed idolatria, tra entusiasmo e inadempienza, tra volontà disattesa e resa incondizionata, quando la vita si fa impegnativa e necessita di una presa di posizione netta, coraggiosa, se serve, anticonvenzionale. Originario di Tisbe di Galaad , poco si sa delle sue origini, quando lo vediamo comparire, al capitolo 17 del primo libro dei Re, in cui afferma di stare alla presenza del Signore, quale certificazione necessaria all’avviso con cui ammonisce il re Acab che sarebbe iniziata una grande siccità. Elia, chiamato a partire, soggiorna ad est del Giordano, con un’immagine che diverrà famosa: i corvi che gli portavano “pane e carne al mattino, pane e carne alla sera” (1Re 17, 6), riecheggiano il simbolismo nordico – germanico, sacri a Wotan-Odino, i suoi due corvi Huginn e Muninn (“pensiero” e “memoria”) volano nel mondo a raccogliere ogni informazione, per poi tornare a riferirla al dio sovrano. Nel capitolo 18 abbiamo una grandiosa rappresentazione, sul monte Carmelo: la disfida, vittoriosa per Elia, con i profeti di Baal, in seguito alla quale fa uccidere questi ultimi, come segno di gloriosa vittoria dell’unico vero Dio sugli dei pagani. A seguito di ciò, un messaggero della regina Gezabele, moglie del re Acab, lo avverte che essa intende ucciderlo. Ecco, quindi, che Elia va verso il deserto e, dopo una giornata di cammino nel deserto, si ferma.
È qui che abbiamo, dunque, lasciato il nostro profeta Elia: scoraggiato e con il pensiero della morte, sotto la ginestra di leopardiana memoria. Il profeta si è ormai arreso. Il suo pensiero è rivolto alla morte. Il potere umano (la regina Gezabele) lo perseguita e lui ne conosce la forza. Al contrario di lui, però, Dio non si è arreso.
“Alzati, mangia”: un comando imperioso, in un rimprovero affettuoso. Come quello delle nostre nonne, quando ci vedono troppo poco entusiasti a tavola. Crollasse il mondo, ma la tavola va onorata, perché “sacco vuoto non sta in piedi”!
Pare quasi che Dio si ispiri a questo buon senso popolare, perché Elia è svegliato da un angelo, che gli fa notare la presenza di “una focaccia, cotta su pietre roventi” e “un orcio d’acqua”. Quando tutto sembra avverso, quando sei in un deserto inospitale, trovarsi davanti una focaccia diventa già motivo di spontaneo buonumore. È la certezza di non essere del tutto in balia degli eventi. Accende la speranza di non essere soli contro tutti. È quel contributo concreto, che, magari, non è risolutivo, ma ti fa svoltare la giornata, per il semplice fatto che riesce a risollevarti l’umore.
Non è la prima volta che, nella vita del profeta Elia, la focaccia riveste un ruolo importante. Nel capitolo diciassettesimo, infatti, il dono della focaccia della vedova di Sarepta con quel che rimane della farina e dell’olio è così prezioso che tale riserva non si esaurirà per giorni.
Focaccia ed acqua. E la fiducia riparte. Con lo stomaco pieno, Alia si incammina verso l’Oreb ed affronta un cammino di quaranta giorni. Era sfiduciato e contemplava la morte come sua unica prospettiva.
È bastata una focaccia a fargli cambiare idea. Perché non si tratta mai solo di una focaccia. Al di là che sia preludio eucaristico, c’è qualcosa che spiega ambedue. Perché una focaccia rianima Elia? Perché il pane eucaristico non è solo pane? Cos’hanno in più?
L’amore, anzitutto. Perché quella focaccia cotta su pietre roventi trasuda la tenerezza di chi si rende conto della fragilità dell’uomo. Che anche chi, in cuor suo “decide nel proprio cuore il santo viaggio” (Salmo 83) è comunque tentato, prima ancora che nella carne, nello spirito. Dai pensieri negativi, dall’ombra del fallimento, dalla consapevolezza stessa della propria fallacia. Non si tratta, quindi, esclusivamente di ridare vigoria al fisico con un po’ di calorie: c’è un calore, nel cibo, che è quel calore affettuoso che nasce dalla consapevolezza che qualcuno ha cucinato per te, ti ha regalato il suo tempo, la sua dedizione. Insomma, quel preparato di olio e farina non è mai solo olio e farina: è una spremuta del proprio affetto, reso presente in forma fisica.
Lo stesso si può dire per l’Eucaristia. In quell’ostia bianca c’è concentrato tutto l’amore del mondo. Ne vediamo la realtà fisica, affinché non sia solo un’affermazione, ma acquisisca concretezza. I sensi, al contempo, ne sono frastornati, perché non vedono altro che quell’ostia bianca, fragile, piccola, incapace di nuocere. Eppure, in quell’ostia bianca, è presente tutto l’amore di Dio che, per amore, è morto ed è risorto, tenendo sempre davanti a sé, quel nome che si è scritto, dall’eternità, sul palmo della mano (Is 49). Il tuo!
Rif. Prima lettura festiva ambrosiana nella IV domenica dopo la Decollazione, anno B (1Re 19, 4-8)
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Fonte: Simbolismo del corvo