Enrico è un nome proprio di persona: ha un volto, una storia, una memoria che gli è propria. Oggi, però, è anche un nome collettivo: è il volto e la memoria di chi, dopo avere sbagliato nella vita, ha trovato, inaspettata, una mano tesa, a mò d’incoraggiamento, di ripartenza. L’abbiamo conosciuto dentro i corridoi zeppi di menzogna di una patria galera, quella di Padova: era uno dei tanti. Quando il male fisico l’ha travolto fin quasi a sopprimerlo, d’un botto s’è ritrovato sotto una anonima tettoia, appena fuori dal carcere: “E adesso, che si fa?” ha domandato alla terra attorno che, nel frattempo di tutti gli anni scontati lì dentro, si era fatta bruciata. Quella sera stessa, una porta si è aperta: più che aperta, spalancata. Proprio a lui che, per passatempo, si era abituato a scardinare le porte, ricercando il facile bottino alla felicità. E’ stato adottato, come si adotterebbe un figlio. O, meglio ancora, è stato riabbracciato come un figlio, silenziando le sirene degli allarmi attorno: “Sappiamo tutti come funziona nelle famiglie – rispondeva la gente buona –: che il figliolo che ha più bisogno, lo chiederà sempre nei modi più bruschi”. D’allora, fino a ieri, lui non è più stato “uno di quelli della Mala del Brenta”: era ridiventato Enrico, il signor Enrico. “Pensa te – mi confidò un giorno -: mi chiamano signore nonostante il mio passato”. L’educazione è come la misericordia: non cancella il passato, ma è capace di riscrivere il futuro. O, almeno, di riprovare a farlo.
Ieri il signor Enrico è stato riarrestato. Parole come cura, premura, fiducia, attenzione, riguardi, progetti oggi lasciano il posto a tutt’altre parole, riflesso di tutt’altre immagini: rapina, ricettazione, fucile a canne mozze, passamontagna, cartucce, pistole scacciacane, detenzione di arma clandestina. Il male, ch’è una faccenda intricata e imbastardita, sembra avere avuto la meglio, anche stavolta, per l’ennesima volta: “Abbiamo perduto tempo e basta?” mi ha scritto oggi una persona, allegandomi la pagina del giornale. La soluzione a questo inghippo è racchiusa proprio in quel punto interrogativo finale: è una domanda, non è un’affermazione. Un punto di crocevia, non un muro invalicabile. C’è ancora una speranza sotto un’apparente disperazione: “?” Il male, quando decide di rivelarsi, sbraita: ha una forza d’urto che acceca e annulla, sembra non ammettere nessun contraddittorio. Eppure, riflettendo sui fatti accaduti, quest’avventura è stata un’avventura che ha avuto senso giocarsi, coinvolgendo il maggiore numero di cuori possibili. Perchè, fosse stato anche solo per sette anni, siamo andati tutti alla scuola dal bene. Ci è andato Enrico: dopo una vita passata tra prigioni e notti insonni, finalmente ha avuto modo di conoscere, percependolo sulla sua pelle, il fascino irruento del bene, della generosità, della bontà. Della verità. Non è mai tempo perduto sponsorizzare il bene! E ci siamo andati anche noi, a scuola: vederlo capace di gratuità, scrutarlo mentre a fatica cercava di sgomitolare la matassa della sua storia, inseguirlo come lepri tra i suoi altri e bassi, ci ha fatto comprendere che lui è molto di più di “quello della Mala del Brenta”. E che se, nel suo passato, ha compiuto alcuni gesti discutibili, non aveva però esaurito tutta la sua grandezza compiendo quei misfatti. C’era dell’altro, di meglio, di nascosto: l’abbiamo visto in tantissimi. E la sola vista ha procurato del bene a tantissimi.
Oggi, su questa nostra storia, pesa il rumore molesto delle sirene spiegate della Polizia: Enrico è tornato in carcere, noi alle nostre faccende quotidiane, senza di lui. Non è una sconfitta la nostra, però: è la bellezza di averci provato. Siamo apparentemente vinti, ma solo perchè abbiamo accettato di combattere una battaglia che, per noi, varrebbe ancora la pena di combattere: per non essere vinti, sarebbe bastato fregarsene. Invece vale sempre la pena accettare il combattimento. Forse nemmeno lui, alla fine, ha perduto (ancora) tutto: essersi ustionati al sole dell’amore gratuito, anche solo per qualche annata, lascia segni permanenti nel sonno di chi dovrà rincasare in galera. Dove la quiete è un forestiero senza volto che percorre i corridoi a passi felpati, avvolto in un mantello nero. E la libertà è come un’ospite: ospitarla ha i suoi lati gradevoli. Ma qualora ripartisse, lascia sempre dei rimpianti dietro sé.