fretta

E’ uno degli animali più ostici, la lepre, da acchiappare: è veloce, compie scarti improvvisi, la sua scaltrezza destabilizza anche il cacciatore che, fino all’ultimo, pensa d’averla in pentola: quando ti è avversaria, riesce a mandare a monte una partita con uno scatto fulmineo, alla faccia di un’intera muta di cani. La misericordia messa in scena da papa Francesco somiglia più ad una lepre che ad un pachiderma: è per questo che destabilizza e consola, incuriosisce e insospettisce nel medesimo attimo. Nessun’altra parola rappresenta meglio di questa l’anima, ancor più l’identità del cristianesimo francescano.
Come la misericordia da lui celebrata, anche Francesco somiglia assai alla lepre: un’alzata di spalle e via, c’è da agire in fretta. Non in fretta-e-furia, ma con la fretta tipica di chi, insofferente, non ha più tempo da perdere. Un’alzata di spalle, si parte: alla faccia di chi s’ostina a sponsorizzare la pazienza di Dio. Quando, a chiare lettere, i Vangeli mai tacciono sulla fretta di Dio. Zaccheo si sente dire «scendi subito»; il ladrone si vede costretto ad accelerare i sogni: «stasera sarai con me in Paradiso»; la donna di Nazareth «di fretta raggiunse una città di Giuda». Marco, l’autore del Vangelo più veloce, nel suo racconto fa serpeggiare una gran fretta: ventotto volte s’avvale della compagnia di un avverbio di velocità – «subito» – per narrare chi sia Gesù per lui: un Maestro dall’andare frenetico, spedito, alacre. L’impazienza è il volto di Gesù: il tempo si è fatto breve, c’è una manovra da portare a termine, senza indugi, senza ripensamenti. Anche la sua fama «si diffuse subito dovunque», fino alla promessa finale, quella capace di rendere coraggiosi i fuggiaschi del venerdì, quelli con la coda-tra-le-gambe giù dal Calvario: «Ecco, vengo presto» (Ap, 22,20). Senza la fretta cucita addosso, il Cristo perde velocità, smalto. Brio.
Le parole sono lente, i gesti son più celeri: trattengono, nella veemenza di un attimo, la riflessione di un’intera giornata, la sintesi di un’intera esistenza. Il magistero di Francesco è un magistero scritto con il calcestruzzo dei gesti più che con la friabilità delle parole: l’ultimo, fra qualche giorno, in un’isola sperduta dell’Egeo, Lesbo, per accendere la luce sulla Via Crucis di un popolo che abita l’esilio dell’incertezza, la disperazione di non avere più una terra, la nudità di sapersi fuggiaschi braccati da un mare insaziabile. L’Europa sceglie d’affidarsi alle parole delle convenzioni, Francesco s’affida alla scarsezza dei suoi mezzi. Scarsezza, anche scaltrezza e destrezza, però: nessun viaggio papale è mai stato organizzato in così poco tempo. Sembra che Francesco abbia tanta fretta stavolta, come mesi addietro a Lampedusa, come la volta che si rannicchiò a lavare i piedi dei piccoli-Giuda nel carcere romano: si era appena agli inizi, ma già la Chiesa era stata messa in allerta. L’Europa non è cattiva, nemmeno l’Italia lo è: questo, il Papa, lo sa benissimo. Il problema è la paura di uscire allo scoperto, d’infettarsi della diversità, di contaminarsi della polvere che arriva da strade lontane, pure slabbrate e senza più manutenzione. Fosse questione di cattiveria, c’è da crederci che Francesco, a questo punto, non esisterebbe ad improvvisarsi cacciatore: di come si imbracano i fucili la Chiesa ha tutta una sua tradizione alle spalle. Siccome, però, non è questione di cattiveria ma di paura, invece che le vesti del cacciatore il Papa indossa quelle della lepre, il soggetto che sovente viene cacciato. Lo fa a modo suo: da acrobata, mezzo spericolato. Facendo dei confini estremi le nuove stazioni di partenza per la sua Chiesa.
“E’ un solitario” dicono di lui. Hanno iniziato a bisbigliarlo anche nelle curie dei “suoi” vescovi. L’accusa è la medesima, emessa per entrambi: quella di non lasciare in pace nessuno, d’inventarsene ogni-giorno-una. D’altronde è proprio quello il loro mestiere: mettere nella pace, non lasciare-in-pace.

(da Il Mattino di Padova, 10 aprile 2016)

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