Agitato, come sulla soglia d’una grande liturgia. Il giorno in cui lo invitai a celebrare messa nella parrocchia di San Disma (quella del carcere di Padova) m’anticipò un suo tratto del carattere: quella timidezza che sovente è d’impaccio alle anime pie. Lo incoraggiai, con un anticipo di simpatia: “la mia gente, don, non è cattiva. Tutt’al più troverai qualcuno infelice”. Mesi dopo, ormai prossimi al nostro incontro, mi telefonò. E mi stupì quella sua rara umiltà del cuore: “posso farti leggere la predica che ho preparato? Voglio che tu mi dica se qualcuno può sentirsi offeso”. Un uomo premuroso d’essere voce di una parola che arrechi calore, confidenza, amabilità. E non giudizio, arroganza, morale. Non la volli leggere: mi bastò quel suo umile affidarsi ad un prete di galera per pesarne la forza del cuore. Di questo parroco bistrattato di periferia.
L’attendo sulla soglia del carcere, ch’è la soglia della nostra piccola comunità cristiana. Ad attenderci c’era già lui, don Roberto Barotti (parroco di Boara Pisani) abbondantemente in anticipo: certi gesti parlano da soli. La mano che già trema, il viso d’una fanciullità tipica degli uomini affabili, il sorriso di un confratello mai incrociato prima: eppur basta poco per sentirsi parte di un sogno comune. Ne scruto lo sguardo: somiglia ad un bambino il primo giorno di scuola. Chiede, s’informa, saluta e dispensa sorrisi: in un mondo in bianco e nero, un sorriso tiene la forza di un arcobaleno. Poi la prova del nove: Vincenzo – il miglior sacrestano d’Italia – lo addestra al linguaggio della galera, lo accoglie perchè si senta a casa, lo rassicura che gli starà vicino fino a quando finirà tutto. Lo veste, gli sistema l’amitto, gli raccomanda qualche piccola accortezza. Anche Vincenzo è un uomo fine: la strada l’ha reso uomo, lasciandogli in dote un’umanità ferita ma disarmante nella sua freschezza.
Il teatro si riempie: di lupi, direbbe la gente comune. In realtà si riempie di uomini: i miei uomini, quello con i quali prego, per i quali ogni tanto piango, con i quali cerco Dio a tentoni. Anch’io, come loro. Lui li guarda e trema, s’agita, non trova pace. Inizia la messa, gli porgo il saluto, loro lo guardano e lo incoraggiano: con i loro canti, con quella partecipazione che altrove è un’illusione, con la presenza di quella carne ferita della quale papa Francesco tiene premurosa cura. E’ il momento dell’omelia: c’è il silenzio solenne delle grandi occasioni. Don Roberto prende i suoi fogli, alza timidamente il capo e capisce che a far i conti con gente attentissima non è cosa domenicale: qui ascoltano, meditano, ci credono. La legge, ma è come se parlasse il cuore: s’avverte – e avvertono – che l’ha preparata pensando a loro, pregando per loro, interrogandosi con loro. Meno di dieci minuti è durata: ne sarebbero bastati due, e già s’erano lasciati stregare da quell’uomo semplice e mansueto. Poi si siede, fradicio di sudore. Un po’ si vergogna, poi si lascia andare. E parla, stavolta a braccio: “Vedete ragazzi cosa significa essere timidi nella vita. Però per voi oggi mi son fatto forza e ho vinto la mia timidezza”. Così, profondamente uomo, sinceramente limitato, spassionatamente libero. E loro s’alzano in piedi e gli battono le mani, quelle mani che qui non si battono a caso come nelle cattedrali. L’applauso: l’attestato d’amore cristallino ad un prete di periferia.
L’uomo cattivo non è invincibile, tutt’al più arreca paura, magari fastidio. Don Roberto ha scelto la via più ardita, quella delle anime semplici: s’è messo a nudo nella sua umanità, ha mostrato amore per quelle carni ferite, ha parlato di Dio col linguaggio dei bambini. Senza vergogna alcuna: e loro l’hanno sentito familiare. Umano, uno di loro. E’ entrato agitato, è uscito con la nostalgia stampata sul volto: sembra che in periferia l’aria sia meno inquinata.
Più genuina. Meno formale. Più saporita di Vangelo.
(da La Difesa del popolo, 23 marzo 2014)