La storia di Johannes
La storia di Johannes è molto particolare. Quando si pensa a un ragazzo che vive in comunità, il primo pensiero va alla droga. Non è però il suo caso. Proviene da una famiglia cattolica, ma la sua adolescenza è segnata dall’esperienza del bullismo e dalla solitudine, che sfocia nella depressione. Non riesce a farsi degli amici e finisce col chiudersi in casa. La sorella è per lui la spinta che lo convince ad andare a Međugorje, nonostante, in famiglia, la preghiera fosse sottovalutata, per via di una sorta di “vergogna”. Venuto poi a conoscenza della Comunità Cenacolo, la sua prima esperienza è in Austria.
Le esigenze della comunità
La comunità richiede di rinunciare ai contatti col mondo: non c’è la televisione e i ragazzi non usano lo smartphone. Johannes vive l’esperienza dell’adorazione eucaristica e sperimenta per la prima volta piccoli lavori come fare una lavoratrice e pulire. Sottolinea quanto la comunità lo abbia aiutato. Innanzitutto, tramite l’Angelo Custode (un ragazzo, già in comunità, che aiuta l’inserimento del “nuovo arrivato”), ma anche tramite altri ragazzi della comunità.
L’abbraccio di Cristo
Ricorda, in particolare, un episodio. Era un momento in cui sentiva addosso un malessere interiore, un suo fratello di comunità se ne accorse e gliene chiese il motivo: Johannes vinse la timidezza e ne spiegò il motivo, ricevendo in cambio un abbraccio. Lo ricordava con grande gratitudine, come fosse l’abbraccio stesso di Cristo. Dovremmo ricordarlo anche noi: tutte quelle volte che ci sentiamo inutili ed impotenti, che ci sembra che ogni parola sia inutile… a volte, semplicemente, renderci presenti è tutto quello che ci è chiesto!
La storia di Andrea
La storia di Andrea, 24 anni, rispecchia forse di più i nostri “canoni”, eppure, al contempo, dimostra la forza dell’amore. Esordisce spiegando che pensava di essere entrato in comunità a causa della droga, quattro anni fa, dietro insistenza della madre. In realtà, ha scoperto che c’era di più.
La ricerca d’identità
La droga era solo un sintomo, non una causa. Inizia a 10 anni con la marijuana, a 15 utilizza già l’eroina. In realtà, il disagio di Andrea nasce in famiglia: fratello mezzano di tre, complice la dislessia, non è brillante come loro negli studi. Per il padre, la bravura negli sci, sembra compensare ciò, almeno inizialmente: a seguito di un infortunio, che lo costringe a stare fermo due anni, non riesce più a proseguire agli alti livelli a cui era arrivato (Campione italiano). Per la madre, figlia di contadini col sogno di giornalista, garantire lo studio ai figli era un modo per riscattare se stessa. Il secondogenito, che non riusciva più ad eccellere negli sport e per cui lo studio è solo fatica, la frustrazione è totale. Si avvicina alla droga, tentando disperatamente di farsi notare dai più grandi.
I “desideri buoni” e la dipendenza
Lascia la scuola presto, fa il muratore, inizia a mettere da parte qualche soldo con l’obiettivo di farsi una famiglia con la propria ragazza, «perché», sottolinea, «i desideri buoni c’erano». Ma la dipendenza ha ormai preso il sopravvento: fa sentire i propri effetti anche sul lavoro, è licenziato, anche la ragazza e gli amici lo lasciano solo. Dopo due overdose (da una delle quali è stato salvato in extremis), si configura infatti il reato di tentato suicidio e il giovane è tenuto a seguire una terapia psicologica e ad entrare in comunità.
La “Cristoterapia”
Non era affatto entrato con convinzione, ma unicamente perché avrebbe trovato un letto in cui dormire e si era illuso che gli avrebbero dato la morfina per calmare le crisi d’astinenza. Invece, appena entrato gli hanno assegnato ben tre angeli custodi, che si sono presi cura di lui, senza medicine (la Comunità Cenacolo non combatte la dipendenza dalla droga con le medicine, ma unicamente con la preghiera, l’incontro con la Parola e la fraternità).
Un bergamasco e tre “stranieri”
Proprio questo porta Andrea a riflettere: di fronte ai sintomi dell’astinenza, i suoi angeli custodi lo assistono, si prendono cura di lui e gli fanno una nuova camomilla (“stavolta più zuccherata, vedrai che ti piace!”), dopo che il ragazzo l’aveva gettata a terra con ira. Ironia della sorte, a lui, bergamasco, erano toccati in sorte un ragazzo ceco, uno belga ed uno del Sud Italia («quindi, tre “stranieri”», ricorda con un sorriso): si domanda come sia possibile che lo sopportino, quando lui non si sopporterebbe.
I “primi passi”
Qualcosa inizia a muoversi, piano piano. «Ci ho messo un po’ a inginocchiarmi», ammette. e spiega: «prima di entrare qui dentro, non ero un basabanchi, non sapevo nulla e mi domandavo cosa fosse quel disco bianco che fissavano così a lungo gli altri ragazzi… piuttosto, poteva essere interessante quello che lo conteneva, visto che era dorato, almeno». Per dieci giorni di seguito, legge la Parabola del Figliol Prodigo, comprendendo la ricchezza della Scrittura, capace di diventare Parola quotidiana, che parla ad ogni singola persona e situazione.
L’amore e le tasche
La famiglia, intanto, ha cominciato anche lei ad iniziare un cammino. Perché, se ad un cambiamento del giovane, non corrisponde una “risposta” adeguata, il rischio è quello di ottenere, per così dire, metà del risultato, in particolar modo, quando il disagio è nato proprio in famiglia. A poco a poco, Andrea ha imparato (o, forse, cominciato ad imparare) a perdonare ed essere perdonato, nella sua famiglia, ricostruendo un rapporto sia con i genitori che con i suoi fratelli.
«Non immaginavo quanto grande fosse la parola “amore”» confessa ancora Andrea, sottolineando come la scoperta di un amore gratuito, che non cerca contraccambio, come quello sperimentato in comunità, lo ha piacevolmente sorpreso, avendo sempre pensato all’amore esclusivamente come “amore di coppia”. «È il cuore che dev’essere pieno. Le tasche, se cambi pantaloni, sono vuote ancora» arriva a concludere, lasciandoci un insegnamento che non può non interrogare la nostra quotidianità.
Perché l’insegnamento più profondo, più ancora che la loro testimonianza, è stato proprio quello sguardo di reciproca stima che si sono scambiati, tra un intervento e l’altro.
La forza della comunità
La comunità è esigente: chi ama, si fida e vede il bene in noi, prima di noi; per questo ci ri-chiama a tornare in noi stessi (come il Figliol prodigo), per recuperare la parte migliore di noi, anche quando essa è seppellita sotto l’abitudine al male (che, alle volte, è una scelta sbagliata contro noi stessi, prima che contro gli altri).
Siamo tentati, a volte, di relegare storie come queste sotto il capitolo “tossicodipendenza”, oppure “ragazzi problematici”. Non ci accorgiamo che queste loro storie devono interpellare la nostra.
Quando Johannes ha confidato come la sua paura più grande fosse la solitudine, alla mente mi è tornata quell’affermazione di Benedetto XVI, di fronte alla varietà immensa di santi che ci accompagnano: «Chi crede, non è mai solo!». Questa dovrebbe essere la certezza che ci accompagna, anche di fronte alle difficoltà della vita che tutti, prima o poi incontriamo. con la consapevolezza che siamo chiamati non solo ad essere il prossimo di qualcuno, ma anche a farci prossimo di chi ha bisogno della nostra presenza.
Essere chiesa
La Pentecoste è l’invito ad essere Chiesa, per farci collaboratori all’avvento del Regno di Dio, nella quotidianità dei nostri giorni, tra i nostri spazi, con le persone che frequentiamo ogni giorno. Nel tentativo di vivere una santità dell’ordinario. Perché Cristo non ci chiama a meno di questo. Con l’esigenza di un Padre, con la tenerezza di una Madre.
(Fonte immagine: News Leader)
Queste due testimonianze vengono dalla Comunità Canacolo, fondata inizialmente da Madre Elvira (appartenente alle suore di suor Giovanna Maria da Turé) a Saluzzo (CN): la suora, accortasi che c’erano tanti giovani che si perdevano, a causa della droga, spinta dal motto Caritas Christi urget nos, si mise al lavoro. Alla prima casa, ne seguirono diverse, prima in Italia, poi nel mondo intero. «Io li accolgo, Tu dimostra loro che sei Padre» è stata la preghiera di suor Elvira, aperta alla Provvidenza, di fronte alle avversità incontrate nel suo cammino. Questo affidamento alla Provvidenza significava anche provvisorietà, ma la condivisione porta a sperimentare il vero sapore delle, che, nel possesso, al contrario, rischiamo di perdere.
Per ulteriori informazioni e approfondimenti sull’opera:
Un mio precedente articolo, con un’altra testimonianza: