L’occhio dell’altro ci parla di noi, il modo in cui ci guarda ci fa sperimentare nuove piste, che spaziano all’interno del nostro vissuto e del nostro vivere. «Tutti cerchiamo negli occhi dell’altro l’evidenza che esistiamo, la certezza che sappiamo amare, che siamo capaci di relazioni vere, la garanzia che per qualcuno contiamo qualcosa, che meritiamo attenzione, interesse, forse amore» (1).
E, del resto, anche l’altro ha bisogno di noi: ma non sempre. Alle volte, la distanza è necessaria. Per dare respiro alle relazioni, per consentire di assaporare la tenacia di un legame. Per non cadere nell’abitudine. Per evitare il rischio di entrare nel gorgo di una routine stanca, piatta, abitudinaria.
Ecco allora iniziare una danza, un continuo avvicinarsi, indovinarsi, conoscersi, interpretarsi, ferirsi (talvolta). La danza della parola e del silenzio, che si alternano, giocosi, sornioni, indaffarati, nel tentativo di fare “la cosa giusta”. Perché «l’uomo è un abisso: a guardarci dentro vengono le vertigini» (R.Benigni, La tigre e la neve). Nessun uomo è uguale a un altro: accomunati dalla fraternità umana, restiamo comunque unici, nel bene e nel male. Un uomo è un abisso, cioè qualcosa di non finito, non quantificabile, quindi mai capibile (nel senso proprio del termine e cioè “contenibile”) fino in fondo: ha sempre “qualcosa in più”, che rimanda a un Oltre, appena immaginabile.
Ecco perché è da riscoprire il significato della “soglia”. Troppo spesso, ci sentiamo in diritto (anzi, quasi in dovere) di entrare nell’altro, nei suoi pensieri, nella sua mente, nel suo passato, persino di rivangare tra le sue cicatrici. Pensiamo che ci sia un “dentro” e un “fuori”: e se non siamo dentro, allora gli siamo indifferenti. Dimentichiamo che c’è una “soglia”. Stare sulla soglia non è indifferenza, ma significa essere consapevoli che esiste questa dimensione. E della sua importanza ci informa un grande libro semplice come il Piccolo Principe (2): quell’attendere, quel prendere confidenza, quell’addomesticarsi iniziale è proprio quello che nutre il rapporto, lo rendo forte e gli fa superare le difficoltà che sopraggiungeranno.
Specie all’inizio, ma anche durante tutto lo svolgersi, avviene una sorta di “altalena” dell’egoismo: un alternarsi, cioè dei nostri sogni, bisogni, desideri, aspirazioni a quelli dell’altro. Se, da una parte, siamo contenti e anche avidi di conoscerlo, di scoprire qualcosa su di lui, al contempo desideriamo che ci conosca davvero, non (soltanto) per quelle informazioni un po’ banali da “curriculum vitae”.
Ecco perché ritengo che ascoltare soltanto l’altra persona non sia altruismo; siamo abituati ad associare il parlare con una manifestazione dell’ego, al contrario dell’ascoltare, visto come una sorta di contrito atto caritatevole. Ma tale associazione è sbagliata, perché dà una sorta di valutazione, per cui è considerata più importante la parola; dunque, per dirla in breve, se ricevo un maggior numero di parole dall’altro, io lo conosco di più. Quindi l’ascolto sarebbe in funzione della parola. Qui sta l’inghippo, come suggeriva una storiella, che però faceva notare una cosa importante: non sono importanti solo le cose dette, dunque non solo quelle sono da ascoltare. È necessario ascoltare anche ciò che non è detto. La parola e il silenzio sono come i canti di una polifonia: nella melodia che si crea tra i due si può assaporare la limpidezza e la ricchezza di una relazione.
Ci vuole una forza quasi sovrumana a capire l’importanza di “lasciare andare” le persone. La grande tentazione è quella di avvinghiarle a noi, in tutti i modi, leciti e illeciti, pur di ingraziarci i loro favori. Ma così, cosa sarà possibile ottenere? Di certo, nulla di duraturo, magari qualche legame dall’utilità: questo non lo escludo. Ma «i veri amici […] sono sempre liberi di separarsi, senza separarsi mai» (Alfred Bougeard). Nelle relazioni umane, è necessaria una massiccia dose di libertà, che rivela la consapevolezza del valore che l’altro non contiene,no, molto di più: è. L’altro non mi appartiene mai completamente. Anche nel suo “consegnarsi”, affidandosi a me, la libertà gli riserva la possibilità di ritirarsi, in qualunque momento, di cambiare idea, di tornare sui suoi passi, di recidere quel legame che ci fa sentire uniti.
Concretamente, significa rendersi conto che l’altro non ci appartiene, non è nostra proprietà. Ecco perché dobbiamo sempre avere davanti agli occhi il traguardo della libertà. Sappiamo che potrà essere doloroso, eppure ci rendiamo conto che evitare di elargire all’altro questa libertà significa anche non entrare veramente in dialogo con lui, significa asservirsi una persona, i suoi servigi, tramite intimidazioni, “ricatti affettivi” o altre strategie, più o meno violente, più o meno esplicite, ma, in ogni caso, contrarie all’attuazione e al dispiegarsi effettivo della libertà dell’altro. A questo, si aggiunge anche un necessario misconoscimento del valore dell’altro: togliergli libertà per garantirci una (falsa) “fedeltà” equivale infatti a considerarlo inferiore. In questo modo è inevitabile un cambiamento all’interno del rapporto: invece di essere un rapporto tra eguali, diventa un rapporto tra un subalterno e un superiore, in cui spesso, paradossalmente, la persona più fragile è proprio il superiore, che “gestisce” un subalterno, nella speranza di trovare le sicurezze che cerca.
Nel Vangelo compare spesso un discorso in questa direzione: quello di questa domenica (3) mostra un Giovanni Battista che, facendosi da parte, “istiga” l’altrui libertà e accende la curiosità della ricerca nei riguardi di Gesù. Ma, se possibile, c’è un episodio (4) in cui è ancora più prorompente l’offerta di libertà che il Cristo offre alla perplessità dei suoi discepoli: «Volete andarvene anche voi?»
E ciò che brucia maggiormente è che la vera difficoltà non sta nel rispondere a questa domanda, bensì nel porsela, nei riguardi delle persone che amiamo. Al contempo, è fondamentale farsela. Perché solo la garanzia della libertà, nei rapporti, è anche garanzia di autenticità.
Note
1 Ermes Ronchi, I baci non dati, Paoline 2009, pagina 85
2 Antoine de Saint- Exupéry, Il piccolo principe, Tascabili Bompiani 1978, capitolo21 , pagina 83: «La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una Musica.
E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…»
3 Gv 1, 29 -34
4 Gv 6, 60-67: smarrimento che segue al “discorso eucaristico” in Gv 6