La Prima Lettura si colloca in quella che è comunemente definita la “cattività babilonese”, cioè quel periodo in cui il popolo fu deportato Babilonia, dopo essere stato sconfitto ed umiliato e le mura grandiose del suo tempio completamente distrutte.
Il numero settanta, citato nel finale dell’estratto (2 Cr 36, 21) ha un evidente valore simbolico, dato da 7 (numero della perfezione), moltiplicato per 10, che sottolinea l’asprezza della punizione riservata al popolo che ha ‘dimenticato’ l’elezione e la predilezione di Jahvè nei suoi confronti e, rendendosi colpevole di infedeltà (2Cr 36,14), ha completamente disatteso le indicazioni dei profeti (messaggeri) inviati da Dio (2Cr 36, 15).
“Mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me” afferma Isaia, come citato nella lettera di San Paolo Apostolo ai Romani (Rm 10,20). La Croce, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani ( 1Cor 1,23) si rivela evento che non può che interpellare la totalità dell’ecumene. Perché la croce racchiude in sé il dolore innocente, il Giusto che soffre, l’ingiustizia del mondo che grava sull’Unico completamente incolpevole. Ecco perché anche per chi non è cristiano la croce si fa pressante interrogativo. Diventa il punto d’incontro tra Terra e Cielo. Cristo dimostra infatti la sua divinità nello sconfiggere la morte. Ma è nell’accoglienza di una Croce liberamente scelta (pur potendola, come ognuno di noi, anche rifiutare) a renderLo vero Uomo e nostro Fratello nelle disavventure umane.
La libertà dell’uomo può incontrare l’onnipotenza divina ogni giorno, nella quotidianità variegata della nostra vita, dimostrando che, solo passando attraverso quelle fatiche che, probabilmente non sceglieremmo di nostra iniziativa, è possibile vivere. La tentazione più grande è infatti quella di considerare vita solo quegli attimi di pace e di tranquillità, magari di vita mondana esclusiva, assaporata per un giorno (o anche meno, a seconda delle disponibilità economica), invee di riempire di vita ogni attimo del nostro tempo, che è fatto di gioia e di dolore, di sacrificio, impegno ma anche riposo, tutto riposto nelle mani di un Padre amorevole e Provvidente che ci guida nella strada che conduce all’eternità.
Nel brano evangelico di questa Domenica, al contrario di quanto ci aspetteremmo, nella situazione storico-politica del tempo (con la Galilea sottomessa ai Romani), ci troviamo di fronte ad un centurione amato dagli ebrei («Egli merita che tu gli faccia questa grazia, dicevano, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga»).
Eppure, per ben altri motivi, Gesù lo additerà quale esempio encomiabile. Non un semplice rispetto umano o bontà d’animo d’un brav’uomo. È la sua fede ad essere fuori dall’ordinario, quindi stra-ordinaria, come sottolinea il Maestro: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande».
Il centurione chiede infatti quella che noi definiremmo “una grazia” per il proprio servo. Salvo poi aggiungere, premurosamente: «Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo non mi sono ritenuto neanche degno di venire da te ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito».
Quando al Maestro è riferita tale frase, nasce in lui quell’esclamazione di ammirazione. È infatti chiaro come una frase del genere sottenda la mancanza di necessità di vedere il miracolo, che rende la fede del centurione scevra da ogni sensazionalismo di sorta. Fiducia è guardare senza gli occhi, confidando nella mano che opera meraviglie che non comprendiamo (Gb 37,5). Esattamente ciò che mostra l’ignoto centurione, di cui però ricordiamo ancora oggi, nella liturgia, la fede in Cristo.
Che smacco, dev’essere stato, per Gesù stesso, ma anche per tutti i discepoli vedere un centurione romano, cioè non solo un pagano ma anche un appartenente al popolo oppressore della libertà d’Israele , assurgere, proprio malgrado a maestro della fede, con grande umiltà, nei fatti!
Anche a noi, alle volte, costa ammetterlo. Ci troviamo davanti una persona in gamba, ma ci è difficile ammetterlo. La sua provenienza non ci convince, non abbiamo feeling con lei. Eppure, l sua semplicità è vincente. Non ha competenze, ma la sua fede sbaraglia la concorrenza.
Forse è questo che si intende quando si dice che “Dio non chiama i più capaci, ma rende capaci quelli che sceglie”. Fino a renderli esempio credibile di fronte a quelli che s’illudevano (a torto) di esserlo.
(rif. Letture festive ambrosiane, nella XIII Domenica dopo Pentecoste, Anno B: 2Cr 36, 17-23 Sal 105 Rm 10, 16-20 Lc 7, 1-10)
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