Quando era in vita – pelle e ossa come tutti gli umani – soleva presentarsi all’improvviso, senza preavviso, senz’avvisare i residenti. La sola anticipazione concessa diventava il suo più letale punto d’aggancio: era lo sguardo. Quando, però, il suo sguardo s’era agganciato a quello di una creatura il gioco era bello che fatto: scappargli via, senza pagare lo scotto della morte, era impossibile. A farne le spese, su tutti, furono i peccatori, i più a rischio perdizione: fu così che, guardando, impigliò nella sua rete uno strozzino come Levi, un farabutto come Zaccheo, una donna carnale come Maddalena. Un saputello come Nicodemo, un borioso come Natanaele, una vecchia canaglia come il suo Giuda. Un poco di buono come il sottoscritto. C’è, a dirla tutta, che anche Dio fa il fuoco con la legna che ha. Qualcuno, a dire la verità, lo scansò di proposito: ancora oggi, ch’è sempre il tempo della chiamata, c’è qualcuno che lo scansa. Il motivo lo dipinse a mò di pittura un santo, Massimiliano Maria Kolbe: «Non è vero che la gente oggi non cerca più Dio per malavoglia, menefreghismo – parafraso la sua perla -: oggi la gente non cerca più Dio perchè teme, un giorno, d’incontrarlo». Il fatto d’incontrarlo, costringe a fare i conti con la sua presenza. Mette la creatura di fronte al Creatore: nessuna mano d’umani spoglierà come quel suo sguardo.

Ancora più assurda dell’amicizia coi peccatori – ancora non si digerisce la strana faccenda che, in cuore suo, chi ultimo arriva meglio alloggi! – è l’amicizia tra Dio e le sue creature: non esiste al mondo disuguaglianza più grande. Che Cristo passi di casa in casa, sieda a tavola come un vicino di casa, non sfoggi minimamente la sua statura è cosa stuzzicante: è sempre più facile vivere una storia d’amore con un Dio che si tiene a distanza di sicurezza piuttosto che con un Dio che, in metropolitana, ci tocca il gomiti col suo. Quando, poi, decise di ritornare dov’era partito – nel seno di suo Padre – non volle affatto perdersi questo corpo-a-corpo con l’umano. È bizzarro, se così si può dire, che questo contatto faccia del bene anche a Lui, non solo a noi: mantiene fresca la sua umanità, resta aggiornato sull’andazzo del cuore umano, tiene i piedi per terra. Per questo, ritornando in Cielo, s’ingegnò quella strana forma d’esser presente. Ancora più di come lo era un tempo: un tempo era gomito a gomito, spalla a spalla. Sembrò non bastargli: se non esagera, Dio non è più Dio. Fu così che si mise in testa di farsi mangiare dalla sua tribù: «Prendete, questo è il mio corpo» disse l’ultima volta che si beccarono attorno ad una tavola imbandita. (Amen).

Il Corpus Domini fissò la sua residenza nel corpus homini: così in basso, a memoria d’uomo, nessuna divinità s’era ancora spinta. Quella sera, se i Vangeli non mentono, lasciò di stucco pure Giuda che aveva già affittato il suo cuore al porcodemonio: “L’intimità è preziosa: ricordatevi di non regalarla a chiunque” fu ciò che, senza dirlo, disse loro porgendo, ad uno ad uno, quella briciola di Pane diventata pegno d’amore. Ancora oggi, a distanza di oltre ventuno secoli, la sua presenza permane in quel frammento ch’è l’Ostia. Ricevila in mano o ricevila in bocca, che tu la riceva col vestito della festa o della prostituzione, non cambia l’azzardo che giornalmente si rigioca: “Se tu vuoi, io ti salvo. Se non vuoi, non ti posso costringere, amore. Se non tardi, t’aspetterò tutta la vita”. Solo prenderla col sorriso idiota di chi deride quest’umiltà è da pazzi: «Vanno i buoni, vanno gli empi ma diversa ne è la sorte. Vita ai buoni, morte agli empi: nella stessa comunione diverso è l’esito!» (Sequenza del Corpus Domini) . Massima allerta: vita, anche morte! Quando, nell’eucaristia, alzo l’Ostia, rievoco la supplica di Archimede: «Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo». Quel punto, quando celebro, è nelle mie mani. Quando, poi, entra in me – «Signore, io non sono degno di partecipare alla tua mensa» – scopro che inizia l’amore perchè cala l’imbarazzo: di restare noi due, da soli. È il nostro momento del godimento. 

(da Il Sussidiario, 1 giugno 2024)

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi (Vangelo di Marco, 14,12-16.22-26)

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