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La recente delibera della Consulta apre a nuovi scenari, inconsueti in Italia, perché, fino a questo momento, del tutto incostituzionali:

IN ATTESA DEL PARLAMENTO LA CONSULTA SI PRONUNCIA SUL FINE VITA, La Corte costituzionale si è riunita in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte d’assise di Milano sull’articolo 580 del Codice penale riguardanti la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita.In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (comunicato stampa della Consulta del 25 settembre 2019).

Il grassetto è mio: in questo breve testo, abbiamo un esempio della forza (anche distruttiva) che possono avere le parole.
Parlare di patologia irreversibile apre a scenari veramente amplissimi, perché anche sindrome di down, oppure anomalie dello spettro autistico sono irreversibili tanto quanto un’amputazione, per fare un esempio. E tutte quante, soggettivamente parlando, possono causare sofferenze fisiche o psicologiche. È quella piccola vocale o il cavallo di Troia per trasformare la finestra di Overton in una comoda porta a vetri scorrevole ed aumentare in modo sempre più arbitrario, soggettivo e relativo le condizioni per le quali il suicidio assistito è considerato non punibile, ergo lecito.
In altre parole, una simile sentenza apre alla dittatura del desiderio, guidata dall’egocentrismo, in cui l’io, solo al potere, arriva ad illudersi che tutto dipenda (solo) da me. L’irrazionalismo al potere, in un delirio di onnipotenza, che però, è solo apparente: quanto è libera la mia scelta sulla mia vita, dal modo in cui essa stessa è percepita da chi vive intorno a me? Riporto solo un fatto, significativo di quanto, persino in condizioni di minima coscienza. l’uomo si aggrappi alla vita, quanto meno per istinto di sopravvivenza: persino persone con locked-in syndrom piangevano, disperatamente, al solo sentire che “tanto valeva lasciar perdere”. Sono parole come pietre, del resto, sentire dire questo di una persona, chiunque essa sia e qualunque sia la patologia dalla quale essa possa essere affetta: perché significa parlarne come si parlerebbe di uno smartphone con lo schermo rotto, che “non vale la pena sostituirlo: meglio uno nuovo, conviene di più”.

«È un diritto in più, per chi lo vuole: a te cosa toglie?» domanda, retoricamente, qualcuno.
Se io sono ciò che desidero e ciò che desidero può coincidere con l’annientamento di me stesso, io posso perdere – in qualunque momento – la libertà. Perché senza libertà di vivere, nessuna libertà ha senso di esistere. Libertà di morire è più che un ossimoro, è più che un paradosso, è un grottesco non-sense. Duole dirlo, appunto ed a maggior ragione, dal punto di vista laico.
Perché – questo è il paradosso più assurdo, dal momento che un certo intellettualismo falsamente liberista presenterebbe le battaglie etiche come “cosa cattolica” – è proprio da un punto di vista laico che è assurdo pensare alla morte in positivo. La fede porta a pensare che chi muore trova pace e gioia in Dio, se – e sottolineo se, perché senza questa precondizione, anche la misericordia di Dio resta impotente perché non oltrepassa mai la libertà di rifiutarla delle creature – tale è stato il desiderio che ha guidato la sua vita. Una società laica dovrebbe fermarsi, di fronte al mistero della morte, sospendendo il proprio giudizio, basato su quanto le è dato sapere razionalmente: la vita è un bene prezioso ed indisponibile, dato che non è possibile restituirlo, una volta tolto.

«Ma se lo chiede il singolo individuo, perché non accontentarlo? Non sarebbe forse un aiuto, un compassionevole atto di pietà, per chi non è in grado di darsi da solo la morte?» incalza ancora l’interlocutore.
Stento a credere che davvero qualcuno lo chieda in buona fede, con tale ingenuità, ma facciamo finta che me lo chieda un’anima candida ed ingenua.
La realtà dei fatti, testimoniata da chi ha lavorato quotidianamente con persone nella fase terminale della loro malattia, afferma che una tale domanda sia, in realtà, iperbolica.
La vera domanda è: «soffro come un cane, sono disposto a tutto, pur di smetterla, con questo dolore!». La risposta, già presente, che può essere migliorata con la ricerca, sono le cure palliative, che contrastano il dolore, ma non eliminano il paziente che soffre; piuttosto, per dire così, ne “accompagnano” lo spegnersi, in particolar modo nella fase delle malattie, come quelle tumorali.
Se un amico dicesse: «Lei mi ha lasciato, la mia vita non ha più senso» (quante volte, “scappa fuori” una frase simile, in quella situazione?), noi gli diremmo forse: «Hai ragione, la tua posizione è più che comprensibile. Ti fai fuori fa tu, o hai bisogno una mano?». Non è forse che, chiunque di noi, si farebbe in quattro, pur di persuadere il proprio amico che la sua vita vale più di una storia d’amore, più della tristezza che abita quel momento… un po’ quel che accade nella canzone “Meraviglioso”.
Chi ha sorriso, pensando che questa sia una motivazione stupida, dimentica due cose. La prima è che, statisticamente, possiamo ritenere che proprio la delusione amorosa sia uno tra i motivi principali di suicidio. La seconda è che il dolore, in particolar modo quello – per così dire – esistenziale è – per sua natura – incommensurabile, in quanto intrinsecamente soggettivo, non misurabile e – conseguentemente – incomparabile. Ciascuno, dunque, può ritenere insopportabile qualunque dolore e sarebbe dittatoriale – questo sì – pensare che, a questo punto, spetti a terzi stabilire quali motivazioni siano valide e quali no.
Chi pensa, poi, che la depressione non sia tra le patologie irreversibili, non considera che le storie d’amore possono viverle anche i disabili e, per fare un esempio, un malato di SLA, felice e con una vita appagante, può “non pensare” all’irreversibilità della sua malattia; al contrario, un malato di SLA che ha appena subito, per rimanere nell’esempio, una cocente delusione amorosa, potrebbe decidere di “farla finita” e, non essendo in grado di compiere da solo la propria scelta, ecco quindi la ricerca di un compassionevole assistente per il suicidio. Riprova che non è la malattia a pilotare una scelta simile, bensì – giocoforza – da quanto la persona si sente amata e parte di una comunità di persone che la fa sentire accolta ed importante, per quello che è e non per la sua funzionalità più o meno compromessa.
Basti pensare ad esempi concreti di persone con disabilità che, dopo un periodo più o meno lungo di depressione, spesso durante il periodo dell’adolescenza (già portato – di suo – ad essere soggetto alla cosiddetta depressione giovanile), sono, quasi per contrappasso, diventati addirittura coach motivazionali o – quanto meno – considerati tali dall’opinione pubblica. Su tutti, emblematico è l’esempio del pastore evangelico James Vujicic. Ma come non citare i nostrani Massimiliano Sechi o la campionessa di scherma Bebe Vio? Non mi soffermo su di loro oltre: vi basti sempre che sono accomunati da patologie fortemente invalidanti a livello fisico e dall’aver sofferto, almeno per un periodo della propria vita, di depressione (per chi ha la curiosità di approfondire le loro vite e le loro esperienze, il web è pieno di materiale su di loro).

 Niente di nuovo sotto il sole, beninteso. Si tratta, purtroppo, dell’ennesimo corso e ricorso storico. Il pensiero va, per evitare di andare troppo indietro nel tempo, al triste periodo della belle époque, in cui in Giappone, Usa e bel nord Europa si inizia a parlare di “vite indegne di esser vissute” e si attua la prima ondata di sterilizzazione forzata, cui seguirà l’Aktion T4 della Germania nazista, più sistematico e letale, nei confronti prima dei bambini con handicap fisici e psichici e, in seguito, lo sterminio dei malati mentali nei manicomi.
Paradossale, del resto, notare come, spesso, chi chieda leggi simili coincida con chi le motivi dal “progresso”. Davvero non si rendono conto che l’inevitabile conseguenza ulteriore del dilagare eutanasico non può che essere un regresso della scienza, non più motivata a trovare soluzioni per malattie di cui più nessuno richiede cura, perché i malati sono “caritatevolmente” convinti a preferire la morte alla vita (perché è inevitabile che il clima culturale influisca poi sulle coscienze, sia del malato che della famiglia che si occupa di lui)?

Alla luce di tutto questo, diventa allora inevitabile infatti che, se la vita diventa – da bene indisponibile ed intrinsecamente prezioso a possesso arbitrario, definito dal desiderio proprio, inevitabilmente condizionato da quello altrui (si arriva a desiderare la morte, spesso, perché lasciato o perché si percepisce – in modo più o meno diretto – che questo sia il desiderio d’altri su di sé, per “non essere di peso”, come dicono tanti nostri anziani), logica vuole che le richieste tenderanno ad aumentare e le maglie delle condizioni si allargheranno sempre di più, come già succede nei paesi in cui il suicidio assistito è normato da più tempo (come Belgio ed Olanda).

 

Se passiamo, infine, a considerare la questione dal punto di vista medico, il problema si fa, se possibile, ancora più complessa.
Rischiando di portare alla dissoluzione del ruolo e della deontologia medica. L’art. 17, del codice di deontologia medica, recita infatti: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. Che altro non è se non la legittimazione di quanto Ippocrate, nel terzo secolo a. C., aveva già intuito:

«Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.»

Altro che libertà! La sentenza della Consulta apre a scenari grotteschi e paradossali, in cui la semplice difesa della vita rischierà di essere messa sotto processo, se successivamente potrà essere ritenuta non conforme ai desiderata del paziente, inizialmente dichiarati, poi supposti e infine, chissà, ritenuti superflui – come la sua esistenza!– .

 

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«Hai tu, o io, il diritto alla vita soltanto finché noi siamo produttivi, finché siamo ritenuti produttivi da altri? Se si ammette il principio, ora applicato, che l’uomo improduttivo possa essere ucciso, allora guai a tutti noi, quando saremo vecchi e decrepiti. Se si possono uccidere esseri improduttivi, allora guai agli invalidi, che nel processo produttivo hanno impegnato le loro forze, le loro ossa sane, le hanno sacrificate e perdute. Guai ai nostri soldati, che tornano in patria gravemente mutilati, invalidi. Nessuno è più sicuro della propria vita!».
(Clemens von Galen, vescovo di Münster, omelia presso la chiesa di San Lamberto, 3 agosto 1941)

 


Fonte immagine: Pixabay

 

Qualche fonte, per approfondire ed ampliare le conoscenze al riguardo:

  1. Suggerisco caldamente di leggere questi due interventi magistrali del prof. Adriano Pessina: 1(CATTOLICANEWS) e 2(QuotidianoSanità)
  2. Tempi
  3. La nuova Bussola Quotidiana
  4. I malati vogliono vivere. Più dei sani – inchiesta di Giuliano Guzzo
  5. Silvana De Mari, video Facebook su richiesta di morte come iperbole

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