E’ sempre svantaggioso, anche rovinoso, combattere contro chi non ha più nulla da perdere. Il cattivo, ammesso che esista, non è pericoloso come chi non ha più nessuna ragione per insistere ad alimentare la speranza. Non esistesse il cuore dell’uomo, poi, non esisterebbe nemmeno la disperazione sulla faccia di questo pianeta: «Quando non hai più niente – scriveva Bob Dylan – non hai più niente da perdere». E tutto si fa possibile, ad un passo dall’imprevedibile. “Le galere sono sovraffollate, vero?” mi chiedono certuni, facendosi la domanda, e dandosi pure la risposta (forse per chiudere in fretta la discussione). “Certo – aggiungo quando mi è dato il tempo di farlo -, son sovraffollate di disperazione, prima di tutto il resto”. L’altro sovraffollamento, quello numerico, è da dilettanti la soluzione, al confronto. “Aiutateci a dare loro un senso alle giornate – urliamo al mondo -: la sopportazione della fatica verrà da sè”. Non soltanto dentro, anche fuori, soprattutto fuori, dove alla possibilità della libertà, sovente, corrisponde un grado di disperazione maggiore rispetto a chi vive carcerato. Potessi disegnare, a parole mie, cos’è disperazione, mi verrebbe da dire che è la “fine-del-mondo” personale. Ce ne sarà una finale (il cristianesimo parla del fine, non della fine, è tutt’altra cosa), ma pare che l’uomo, quand’è disperato, non abbia nemmeno il tempo di aspettare quella gigante: se ne cuce una su misura. È la disperazione: il peccato di non credere più a nulla, di non badare più a nulla, non interessarsi più di nulla. Di non godere di nulla, addirittura di non odiare nulla: di non trovare più motivi nemmeno per morire. Condannati a vivere così, si vive disperati.
Giotto, pennello in mano, mentre dipinge la speranza è come se dicesse al suo visitatore: “Vedi, amico mio: c’è un solo grande male nel mondo di oggi: è la disperazione”. Che, illuminata dalla sua inventiva, somiglia molto ad un giardino abbandonato: ciò che noi chiamiamo disperazione, infatti, altro non è che «la dolorosa impazienza della speranza non alimentata» (G. Eliot). Anche rabbia, la rabbia che non conosce nessun posto dove andare a sfogarsi. C’è anche gente abituata alla disperazione: ogni tot dispera, la calcola, la prevede. La alimenta: è ancor più peggiore della disperazione stessa. Perchè dalla disperazione di una faccenda, di un attimo, certe volte si potrà ancora risalire: a volte è necessario provare la disperazione, sposare il più stolto dei pensieri, lambire la possibilità del suicidio per assaporare l’ebbrezza della vita. La presenza della Grazia. C’è anche gente che, per poter (ri)nascere, ha dovuto peccare: è il mistero sublime di chi, nelle patrie galere, torna ad avere un sogno. Ad essere segno. Si rialza!
Eccola la speranza, nella terra della disperazione. Adoro il buon peccatore Charles Péguy, amatissimo compagno di viaggio, quando scrive che «è sperare la cosa più difficile. La cosa più facile è disperare, ed è la grande tentazione». È voce controcorrente, controvento, senz’olio: quando tutti ti dicono “rinuncia”, la piccola-speranza ti supplica di provarci ancora una volta. “Ma non vedi che non c’è più nessuna strada a disposizione” le dici, quasi rassegnato. Poi, se ci pensi un attimo, ti accorgi che anche davanti a casa tua, nel prato, non c’era nessuna strada. Mano a mano che la gente ci ha camminato, però, una strada ha preso la sua forma. “In ogni caso, comunque – si difende la speranza – io ti condurrò ben più lontano della paura. La disperazione non sopporta la speranza: cafona, le ride in faccia, l’accusa d’inutilità, va dicendo che è tutta un alibi. Che sperare è accettare d’esser schiavi: «Spingo per le strade un carretto carico di ottimismo e urlo: “Speranza per tutti!” – è del poeta Christian Bobin – Molti mi rispondono lanciandomi dalla finestra il contenuto del loro vaso da camera, ma serve ben di più per spegnare un carico pieno di sole». La speranza è un rischio da correre: chissà, però, se fa più male smettere di sperare o sperare di smettere.
La Quaresima con Giotto
I^ giovedì con Giotto, L’ingiustizia e la giustizia, 18 febbraio 2021
II^ giovedì con Giotto, L’incostanza e la fortezza, 25 febbraio 2021
III^ giovedì con Giotto, L’ira e la temperanza, 4 marzo 2021
IV^ giovedì con Giotto, La stoltezza e la prudenza, 11 marzo 2021
V^ giovedì con Giotto, L’infedeltà e la fede, 18 marzo 2021
VI^ giovedì con Giotto, L’invidia e la carità, 25 marzo 2021
Dal 2 marzo, in tutte le librerie, Dei vizi e delle virtù (Rizzoli 2021), il nuovo libro di Papa Francesco e Marco Pozza
A Padova, nella Cappella degli Scrovegni, uno dei massimi capolavori dell’arte occidentale, Giotto racconta il percorso della salvezza umana attraverso le storie di Gesù e di Maria sulle pareti e il Giudizio Universale sulla controfacciata. Nel registro inferiore, in bianco e nero quasi fossero formelle in bassorilievo, Giotto dipinge le quattro virtù cardinali e le tre teologali alla destra del Cristo giudice, e alla sinistra sette vizi che delle virtù rappresentano il contraltare. Proprio a queste coppie di opposti – ingiustizia-giustizia, incostanza-fortezza, ira-temperanza, stoltezza-prudenza, infedeltà-fede, gelosia-carità, disperazione-speranza – è dedicata la nuova conversazione tra Papa Francesco e don Marco Pozza. Le virtù sono le strade che conducono alla salvezza, i vizi quelle che finiscono nella perdizione: “Le virtù ti fanno forte, ti spingono avanti, ti aiutano a lottare, a capire gli altri, a essere giusto, equanime. I vizi invece ti abbattono. La virtù è come la vitamina: ti fa crescere, vai avanti. Il vizio è essenzialmente parassitario”. Riflettere su questi temi serve a “capire bene in quale direzione dobbiamo andare, perché sia i vizi sia le virtù entrano nel nostro modo di agire, di pensare, di sentire”. Per questo, ogni capitolo è arricchito da un testo di Papa Francesco che approfondisce un tema del dialogo e da una storia di vita che don Marco Pozza ha ricavato dalla sua esperienza di cappellano del carcere di Padova. Perché nella vita quotidiana vizi e virtù procedono sempre intrecciati, e questo libro è un percorso che ci consente di ripensare insieme il compito, difficile e necessario, del discernimento tra il bene e il male.
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