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Il primo brano che la liturgia ci propone è ostico ed affascinante. Si tratta della disfida del monte Carmelo, in cui il profeta Elia, confidando nel Signore, sconfigge i 450 sacerdote di Baal e ripristina, nel popolo d’Israele, il culto monoteistico, fino a quel momento interrotto.
Il lato ostico della vicenda è senza dubbio quella liturgico: il sacrificio degli animali, bruciati, affinché il loro profumo salga a Dio quale “soave odore” (Ef 5,1) risulta, per chi vive nella nostra epoca, una sorta di retaggio ancestrale di tradizioni troppo antiche perché possiamo avvertirle come familiari. Del resto, invece, per gli antichi, ognuno di questi gesti rispondeva ad un significato e ad una simbologia così precisa da diventare un richiamo irresistibile, per chi ne visualizzava l’attuazione. Offrire un giovenco era far dono a Dio di una primizia, privarsi di qualcosa di bello e di buono per sé e darlo al proprio Signore. Dal momento che Dio non ha bocca ed arti come gli uomini, non poteva consumare, mangiandolo, il sacrificio: ecco quindi la simbologia del fumo, quale risultante di un “fuoco divorante” che, per propria natura si innalza fino al cielo, quasi a voler raggiungere la dimora dell’Altissimo.
D’altro canto, il fascino nasce invece dal constatare con un certo grato stupore come, più spesso di quanto si creda, la forza dei numeri si ritrovi ad essere impotente di fronte alla realtà. Non basta che una bugia sia ripetuta da molti, perché diventi verità – come, invece, qualcuno vorrebbe indurci a pensare. «La verità trova forza in se stessa e non nel numero dei consensi che riceve» (Benedetto XVI, discorso ai rappresentanti della Santa Sede presso le organizzazioni internazionali, 18 marzo 2006): la verità, se davvero è tale, non può essere piegata né dalla forza della violenza, né da quella – più subdola – della pressione psicologica a cui – spesso – possiamo essere sottoposti.
A fronte di questo, la prima lettura diventa allora oltremodo incoraggiante: ci ricorda che non basta la forza dei numeri per avere ragione di qualcuno.

Elia, da solo, confidando in Dio, riesce ad infliggere una vera e propria sconfitta da knock out in questa sorta di “derby religioso” disputato con i 450 sacerdoti di Baal. Lui riesce ad accendere il rogo per l’olocausto e, a questo punto, chiama a sé il popolo d’Israele, domandandogli una discesa in campo esplicita, una presa di posizione netta. Insomma, una scelta, a favore di Dio. Al di là di ogni tradimento, incomprensione, scelta precedente che andava in altra direzione.
La prima azione compiuta è proprio riparare l’altare del tempio di Dio. Non si può ricominciare ad intessere una relazione, se non si è disposti ad aggiustare ciò che era rotto. Talvolta, è necessario un passo indietro. Molto spesso, una revisione delle nostre ataviche certezze. Ogni tanto, anche di riavvicinare i lembi di una ferita che non è ancora del tutto cicatrizzata: per questo, magari, inizialmente, il dolore si farà sentire. Alle volte, però, è necessario attraversare un dolore, per poter provare la gioia più vera – quella che, dopo essere passata attraverso il crogiuolo, ha la garanzia dell’autenticità –.

Seguono altri gesti. Precisi, accurati, ripetuti. C’è una bellezza, nei dettagli, che rischiamo di perdere, se non vi prestiamo attenzione. Nella quotidianità delle nostre vite, ci sono azioni che ripetiamo, senza prestarvi attenzione, senza darvi importanza, convinti che siano un po’ come le nugae petrarchesche: questioni di poco conto, roba di poca importanza, a cui non dare – quindi troppo peso.
Invece, è proprio qui che ci giochiamo la nostra esistenza. Quando, ogni giorno, accogliamo i nostri cari quando rientrano a casa. Quando aiutiamo nostro figlio a studiare, anche se siamo stanchi, dopo una giornata di lavoro, non perché prenda un bel voto, ma perché riesca a percepire la bellezza che si nasconde a quelle pagine fitte, che l’insegnante gli ha chiesto di leggere. Quando andiamo a lavorare, anche se in un posto che non ci entusiasma, in attesa di una migliore posizione lavorativa, perché lo facciamo per amore della nostra famiglia.

Non c’è una briciola d’amore che possa andare perduta. Non c’è un sacrificio che possa sfuggire all’occhio di Dio. Come leggiamo nel salmo (Sal 56, 9):

«I passi del mio vagare tu li hai contati,
nel tuo otre raccogli le mie lacrime:
non sono forse scritte nel mio libro?»

Quindi, anche il più piccolo dei nostri gesti, anche il più piccolo dei nostri turbamenti, anche tutte quelle piccole azioni che finiamo con il compiere per assuefazione, senza più badarvi, può diventare un importante frammento del nostro cammino di santità, che si dipana, lungo il corso della vita, giorno dopo giorno, senza soluzione di continuità, finché la nostra finitudine sarà chiamata ad incontrarsi con la divina Eternità.
Ecco perché siamo chiamati a riscoprire la bellezza di quelle buone abitudini che, se intinte nell’amore di Dio, diventano proficua preghiera della vita, nella costruzione della nostra Buona Novella, con cui annunciamo al mondo la bellezza d’essere di Cristo!


Rif. prima letture festive ambrosiane, nell’XI domenica dopo la Pentecoste, anno B (1Re 18, 16 – 40)

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