amore vita 1

Le letture dal libro degli Atti proposte in questi giorni sono ricche d’azione. In questo caso, è il racconto di una “fuga in due tempi”.

«Non farti del male, siamo tutti qui»

Mi ha sempre colpito questa grido di Paolo, noto a tanti per il suo essere scorbutico e difficile da affiancare. Dopo aver raccontato che Paolo e Sila, dopo essere stati percossi, sono stati assicurati con ceppi e catene, in carcere e che a mezzanotte, mentre i due sono in preghiera e gli altri detenuti li ascoltano, avviene un terremoto, in seguito al quale si aprono le porte e i detenuti sono sciolti dalle catene: il carceriere, spaventato, pensa al suicidio, perché consapevole che, responsabile della loro fuga, il suo destino è ormai segnato dall’ignominia e da un processo capitale. È qui che arriva la rassicurazione di Paolo: «Non farti del male, siamo tutti qui». Grida, Paolo: lo fa, per essere sicuro di essere udito dal carceriere. Non è dei suoi, eppure, la sua vita gli interessa. Non vuole che si uccida.
Questo eccesso d’attenzione tocca il cuore del carceriere, che si rivolge a Paolo, in cerca di salvezza. In seguito all’ascolto della Parola, trova il coraggio di un’azione veramente rivoluzionaria e potenzialmente pericolosa, per sé e per la sua famiglia. Se, prima, al vedere le porte spalancarsi, temendo la fuga dei prigionieri, ha pensato alla morte, ora pensa, invece alla Vita vera ed è disposto a rischiare carriera, lavoro, buon nome: li accoglie in casa sua, a quell’ora della notte.
C’è poi una seconda annotazione, estremamente interessante, a livello storico:

subito fu battezzato lui con tutti i suoi.

Congiungendo questa frase con quanto sappiamo delle abitudini sociali di allora, pur non essendo esplicitamente precisato, viene da pensare che sia, quanto meno, probabile che in quel tutti fossero compresi, se presenti anche i figli o minori affidati alla sua famiglia, così come è probabile che con quel suoi si intenda famiglia in senso allargato (com’è stato, abitualmente, inteso, a lungo, nel corso della storia) e non nucleare (come siamo ormai abituati a pensare oggigiorno).
Perché, storicamente, è un rilievo importante?
Perché attesta che, già nella Chiesa delle origini, di san Pietro e di san Paolo, amministrare il Battesimo ai bambini fosse abitudine abbastanza diffusa e che – piuttosto – è dal quarto secolo che, perdendosi tale abitudine, subentra, invece, l’uso del battesimo adulto (come ci ricorda s. Agostino, nelle sue Confessioni, in cui contesta tale pratica, che ritiene illogica e senza fondamento, perché questa scelta di posticipare, per timore dell’incoerenza nella vita, finisce con l’essere un allontanamento del fedele dall’incontro con la Grazia).
Anche in questo caso, la Chiesa si rivelò Madre. Infatti, le perplessità sul Battesimo erano, in sostanza, attribuibili al dubbio che la fragilità umana mettesse a rischio il fatto che il battezzato fosse in grado di conservare la purezza conseguita nel Battesimo, durante tutta la propria vita. Infatti, nei primi secoli, non era diffusa la pratica della Confessione ed erano previsti riti penitenziali, pubblici, per i peccati più gravi. Fu nel settimo secolo che alcuni missionari irlandesi, basandosi sulla tradizione monastica orientale, introdussero anche nell’Europa continentale forme “private” di penitenza, con la possibilità che esse fossero reiterate nel tempo (CCC 1447).
In tal modo, l’incorporamento a Cristo ha, in un certo senso, recuperato il suo carattere di dono, nell’essere incorporamento a Cristo e via ordinaria, necessaria ma non sufficiente (il Battesimo va vissuto), per la salvezza eterna.
E fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio (At 16, 34). Così si chiude il sipario su questo episodio. Il carceriere che voleva suicidarsi, incapace di accogliere il fallimento, accolta la Parola e ricevuto il Battesimo, è nella gioia, nonostante questa sua scelta lo esponga ai pericoli della persecuzione.

Di gioia parla anche s. Paolo, che si definisce lieto nelle sofferenze. Un’espressione non priva di problematiche, a ben pensarci. Perché non può non lasciarci un po’ perplessi, accostare due termini che ci paiono tanto antitetici. Ci viene da domandarci: ma Paolo è felice, o è triste? È lieto nelle sofferenze. Non è semplice spiegare come sia possibile che questi due termini convivano. Forse, il segreto potrebbe risiedere nel parlare di consolazione: la consolazione non può che avvenire quando si è afflitti. Eppure, essere consolati, ci strappa un sorriso sincero, pur permanendo il motivo che è causa della nostra afflizione.

Forse, sarebbe perfino un po’ ipocrita far equivalere la fede alla felicità, per il semplice fatto che avere fede non esautora dalla sofferenza, dalla fatica, dalla malattia, dalla morte. Cosa che, forse, invece, ogni tanto, desidereremmo. Non è questa la via. Il Crocifisso è Risorto. Per risorgere, ha patito ed è morto. Ma, dopo la morte, ha visto la Resurrezione. In Cristo, quindi, anche noi, possiamo oltrepassare il buio della morte, che non ci allontana né dal Risorto, né dalla Sua gioia.

Anche il Vangelo ci offre un discorso escatologico,  in cui Cristo mostra se stesso come Via, Verità e Vita:

«Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me». (Gv 14,  9 – 11)

Poco prima, aveva prima parlato di “posti” anche per loro. Il rischio è, però, forse, di immaginare il rapporto con Dio e lo stesso Paradiso come una sorta di evento “a posti riservati”. Più avanti, Gesù ci lascia un’immagine colma di tenerezza, che forse riesce a rendere meglio l’idea:

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (14,23)

Noi siamo luogo per Dio. Dimorare nell’amore è dimorare in Dio, ci suggerisce san Giovanni Apostolo: ecco, quindi, che è proprio quando ci immergiamo nell’amore (nell’amore autentico, che vive anche di fatiche, stanchezze, incomprensioni) che possiamo farci costruttori di quel Regno di Dio, di cui possiamo vedere un’ombra sulla terra, quasi-specchio, pur imperfetto, di quanto ci attende, immersi nell’amore, senza fine e senza imperfezioni di un Dio che ama, sempre, in puro dono di Sé.

 


Rif: letture festive ambrosiane nella III domenica di Pasqua, anno B

Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

Fonte immagine: Dilei

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