Gesù Cristo non istruisce un gruppo di eletti, di iniziati ai più grandi misteri, lasciando gli altri nell’ignoranza e nella sete di Dio.
È vero, ha un gruppo di apostoli, che, insieme con le donne, lo seguono più da vicino nelle sue peregrinazioni per i luoghi della Galilea. Tuttavia, non si nega ad incontri notturni con Nicodemo (cfr. Gv 3, 1-21), né tralascia di ammaestrare le folle (cfr. Mc 4, 1), di leggere la Scrittura nella sinagoga (cfr. Lc 4, 14-30) e di scacciare gli spiriti immondi (Mc 1, 21-28)
In verità, non si tratta neppure di realizzare una sorta di programma d’istruzione rispetto alla conoscenza della teologia e delle Scritture. È molto chiaro, infatti, come il rabbi nazaretano si ponga in una prospettiva totalmente differente, rispetto ai rabbini della sua epoca, come è in più momenti sottolineato («insegnava loro come uno che ha autorità, non come gli scribi»).
Il “testamento spirituale” del Signore è presente, con tutta la prorompente forza data dalla peculiarità di quegli istanti, proprio durante l’Ultima Cena. In quelle parole (“Fate questo in memoria di me”), Cristo consegna tutto se stesso (traditio) alla Sua Chiesa: sapendo conclusa la sua esperienza terrena, affida agli apostoli la continuazione della propria opera. Senz’altro, il riferimento è da ascriversi al sacramento dell’Eucaristia, quale strumento salvifico. Ma non è possibile limitarsi a ciò, in senso stretto. Basti pensare al fatto che l’evangelista Giovanni, che pure costella il proprio vangelo di discorsi eucaristici, preferisce sostituire l’ultima cena con la lavanda dei piedi. Opportuno corollario, affinché possa essere compreso l’affidamento che Cristo compie, nei confronti della comunità, di quello che è il proprio corpo.
Nell’epistola di san Paolo, in cui leggiamo una parte dell’inno alla carità (1Cor13) vediamo estremizzata e astratta la situazione che la chiesa delle origini, pur con tutti i suoi limiti umani, cerca di attuare, anzitutto nella condivisione dei beni, vissuta, anzitutto, affinché «nessuno tra loro [fosse] bisognoso» (At 4, 34). Condividere non è regalare, né privarsi del necessario: è far partecipare ognuno del bene di tutti, così che tutti possano averne a sufficienza e nessuno possa mancare di quanto gli occorre.
Il primato della carità, pura e semplice, quella che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13, 8), pur rischiando di essere vista come un’utopia irraggiungibile, ha il pregio di mettere al centro il vero motivo per cui i talenti vanno coltivati. Non è tanto questione di sfruttarli al meglio, quanto, piuttosto, di farli fruttare per il bene di tutti. Nessun dono, pur se mistico, se vissuto nel ripiegamento di sé, rischia di tradire il proprio senso più vero, che è quello di essere vissuto nel servizio del prossimo, che è parte integrante del corpo di Cristo.
«E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe». (1Cor 13, 2-3)
C’è un orgoglio spirituale che può venire dalla fede: è una sorta di strisciante pelagianesimo, che abita la convinzione che la redenzione dipenda da me e non dalla grazia di Dio. Vi è poi, spesso una fraintesa operatività, che, talvolta, rischia di far sfociare la pastorale in una sorta di sfrenato attivismo, che, però, corre il rischio di dimenticare che «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1, 16). E in tutte le cose ci siamo anzitutto noi, uomini, e, in subordine, l’intera creazione, che «geme e soffre in attesa della rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8, 19). Se, da un lato, il rischio è di bearci, magari nel confronto con altri, della nostra fede, dall’altra, è quello di ridurre la fede alle opere di carità: ambedue i versanti rimangono lodevoli, ma rischiano di perdere di vista ciò che è fondamentale.
«Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35)
Il vero testamento di Cristo è l’amore che lega i discepoli. È quello Spirito, che soffia dove vuole, che è inviato come Consolatore e che rappresenta la guida, perenne della Chiesa in cammino, nella storia e nel mondo.
La grande tentazione, di tutti i tempi, ma in particolare di quello che stiamo vivendo, è quella di costruire un Cristo personale, a propria disposizione, una sorta di “prêt-a-porter” che risponda alle nostre esigenze psicoemotive e ci rassicuri.
La grande sfida del cattolicesimo è, al contrario, di essere la fede dell’et: possiamo amare, se siamo immersi nell’amore trinitario, che ci mostra cosa sia quella grazia, per cui la carità è vera e autentica e non ricerca di gloria personale, né contraccambio.
È il Corpo di Cristo che ci fa Corpo di Cristo («si fa un corpo che è Cristo e la Chiesa» – Stefano Augustodunense 1), perché è nella comunità che il Verbo si manifesta ed è nella comunità che la nostra fede può crescere e rafforzarsi, guadagnando concretezza, ma, anche, alimentandosi di nuovi interrogativi e giovandosi di chiunque, alimentato dalla grazia, possa spronarci ad un incontro più autentico con il Maestro di Nazareth.
Rif. letture festive ambrosiane, nella V domenica dopo Pasqua
Fonte immagine: Pexels
1 Cit. in H. De Lubac, Corpus Mysticum