L’anelito alla riforma abita più la periferia che il centro dove, per ovvie spiegazioni, meno fantasia scompagina le carte più sereni rimangono gli animi.
Ma la teologia insegna che l’iniziativa potrebbe venire dalla più suprema delle autorità come dal più umile dei fedeli. Anche se il fedele il più delle volte si trova smarrito tra la fatica dell’ortodossia ufficiale e l’interesse verso forme di religiosità sempre più azzardate. In tale contesto le vecchie menti invocano la tradizione, quelle giovani l’evoluzione e la rivoluzione. Non si tratta di sapere se è meglio o peggio: si tratta di capire chi comanda l’uomo. O meglio: come salvaguardare l’originale freschezza del messaggio di Cristo con l’esigenza di uno stile capace di plasmare contesti storici mutevoli. Sapendo che la fede non si perde – come diceva il curato di Bernanos – ma può cessare di plasmare la vita: e di optional un mondo tecnologico sembra già zeppo.
C’è un fatto chiaro: il cristianesimo s’è inserito nella storia e in questa dimensione sta la sua grandezza profetica ma anche il suo rallentatore: fosse un teorema astratto e intellettuale l’impazienza potrebbe pure starci, ma nell’attimo in cui entra in gioco la dinamica dell’esistenza e il mistero dell’uomo, i ritmi impongono che all’impazienza della rivolta s’aggreghi la pazienza del certosino. Apparentemente la pazienza sembra ostacolare le intuizioni profetiche: e quest’aspetto porta con sé il rischio di viaggiare in solitario, sopratutto per una stimata reputazione di chi viene ostacolato. Chi avverte il bisogno di una riforma nella chiesa – e un ruolo di accelerazione a qualcuno lo Spirito lo offre – conosce l’obbligo della sottomissione. Ma, come contropartita, chiede pure la capacità da parte della gerarchia di saper cogliere le istanze che partono lontane dal campanile della chiesa. Pena il rischio di imboccare – magari seguiti da frotte festanti e adoranti – pericolose uscite di sicurezza che a nessuno offrono motivi di sperare in un futuro credibile.
Il monito nascosto nella Buona Novella è chiaro nella sua limpidezza e faticoso nella sua attuazione: al fedele non spetta il bisogno di perfezionare il cristianesimo quanto quello di perfezionare se stesso nel cristianesimo per giungere a quella santità che molti predecessori hanno già raggiunto. Anche se a volte il prezzo da pagare quaggiù supera di gran lunga il riconoscimento della storia. Scriveva padre Congar, uno che la pazienza l’ha dovuta esercitare fin sul ciglio dell’Aldilà: «Dinanzi ad un mondo che non ammette più il Vangelo se non presentato da una chiesa irreprensibile, non ci si può più permettere alcunché di meccanico, di comodamente adagiato nel letto che i “secoli della fede” avevano preparato alla Chiesa». Anche se lui stesso testimoniò come il vero sviluppo della tradizione non potrà mai essere il frutto del lavoro di un singolo ma chiede l’opera e la riflessione di almeno una generazione. Per purificare, discernere ed equilibrare il tutto.
Chissà, però, se tra il canto “Salga a te, Signore” – al primo posto da secoli nelle hit-parade di un certo cristianesimo – e le nuove melodie più o meno ortodosse un giorno troveremo la giusta dimensione per conciliare la fedeltà ad un passato con la necessità di trovare nuove note – non solo musicali – che sappiano agganciare i cuori a Cristo.