Il muratore e la bambina. Brembate di Sopra è un feudo della Lega Nord da metà degli anni Novanta. Fino a qualche giorno fa era un lembo di terra avvolto nell’anonimato, da qualche giorno è il paese di Yara Gambisario e di Mohamed Fikri. La prima scomparsa misteriosamente, il secondo accusato ingiustamente d’essere stato l’artefice di un qualcosa di losco nei confronti della ragazzina: storie di ordinaria e complicata passione italica. Dal male potrebbe venire il bene assicurava un vecchio motto latino. Cosicché, nel mentre s’attende che tanta sofferta apprensione trovi una degna chiave di lettura, emergono due aspetti che potrebbero tornare utili al nostro paese.
In un’epoca in cui basta un sospetto per emettere una sentenza capitale – facendo della colpa di un singolo la condanna collettiva di un popolo – questo paese dalla fede leghista sta offrendo un esempio di religiosità umana ad uno Stato molte volte in balìa dell’eccitazione del momento. Se sempre più spesso basta il sospetto di uno stupro fatto da un romeno per invocare un nuovo olocausto, se basta il furto di uno zingaro per chiedere l’estradizione all’intero popolo nomade allora il paese di Brembate racconta come sia possibile convivere con un dramma senza decidere di scaricare il peso della responsabilità sulle spalle del primo muratore che passa. Affrontare l’ingiustizia e smascherare la menzogna è una battaglia rischiosa e delicata sin dentro le pagine della Sacra Scrittura, laddove il popolo di Dio deve combattere e sradicare il male dopo averne scovato la radice iniziale. Un giustizialismo esasperato e affrettato oltre a fare più male che bene mostra anche l’incapacità obiettiva di saper fronteggiare la storia degli uomini con gli strumenti a disposizione. La scarcerazione del muratore Fikri se non altro ci infonde la speranza che un giorno sarà fatto lo stesso anche per coloro che nelle carceri s’appisolano alla sera convinti di dover espiare solamente il peso di un sospetto che li ha già decretati carnefici ed ergastolani prima ancora della sentenza.
E qualora la condanna giungesse a capo di una errata traduzione – dovuta al fatto che l’uomo molto spesso è la sua lingua – questo ci mostra l’estrema importanza di imparare la grammatica dell’uomo. La grammatica è la via d’accesso alla bellezza di una lingua, è un po’ come mettere degli occhiali speciali e poter contemplare un popolo nella sua nudità, cioè nella sua bellezza originaria. Le parole sono cariche come armi e gli abbinamenti delle parole tra di loro sono una realtà esaltante. Eppure basta far sì che il soggetto diventi complemento oggetto e il complemento oggetto divenga soggetto per rovesciare l’ordine delle cose, il senso di una frase, la giustizia di una legge. Trenta persone in questura non sono riuscite a tradurre la ricchezza di un’espressione del popolo berbero quando invoca il suo Dio. Questo non dice solo l’incapacità di conoscere una lingua, ma la profondità dei sostantivi e dei verbi di cui è composta una lingua. Le parole sono lunghe al massimo qualche centimetro, qualcuna poco più che un millimetro, ma è nella loro concisione linguistica che molte volte – come nel caso di Brembate – passa il destino di un uomo, di un popolo, di un’intera cultura.
C’è un’intera vallata che cerca la luce nel mistero di Yara e delle migliaia di altri bambini dei quali non si riesce più ad avere traccia. Se nel frattempo, però, impariamo anche a diventare uomini e donne che pesano le parole potremmo dire davvero che il peso di questi giorni c’ha ricordato la responsabilità nell’uso della grammatica.