Li tenevano nascosti laddove nessuno avrebbe mai immaginato d’andarli a scovare: in un anonimo locale, nei pressi di Castellamare di Stabia. Due olio-su-tela che, pur contenuti nelle loro dimensioni, raccontano degli esordi del celebre maestro olandese Vincent Van Gogh: “La Spiaggia di Scheveningen” del 1882, “L’uscita dalla chiesa protestante di Nuenen” del 1884. Liberati dalle forze dell’ordine dopo aver trascorso quattordici anni nelle case dei rapitori: «Quando li abbiamo finalmente trovati – confessano dalla procura partenopea -, non credevamo ai nostri occhi». Lo dicono come si fosse trattato d’una bellissima bambina, di un uomo per lungo tempo tenuto in ostaggio, di una storia finita in bellezza quando tutti pensavano che non ci sarebbe più stata nessuna storia da raccontare. Il loro valore stimato è da vertigine: cento milioni di dollari. Cioè tanta droga, tantissimo denaro, un’infinità di investimenti operati dalla camorra.
Che la mala-vita coltivasse gusti finissimi in materia d’arte non è certo una novità: ha sempre investito in opere d’arte, saccheggiandole e riciclando la loro bellezza. E’ più uno stile che una stravaganza: il capolavoro – meglio se ridotto in dimensioni – è liquidità a portata di mano, garantisce meno tracciabilità, è un miglior occultamento negli spostamenti. Le opere d’arte, come anche i gioielli di pregiatissimo valore, sono sempre stati beni facilmente mobili. Sono bellezza-in-movimento, dal momento che l’arte è creazione di bellezza. Che altro dovere abita nell’animo di un artista se non quello di tenere accesa la meraviglia nel mondo? Qualora nel mondo fosse tutto chiaro, l’arte forse non avrebbe ragione d’esistere: «Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale» (M. Proust). La camorra, dunque, s’interessa del picco-massimo di bellezza, dell’arte scritta con la maiuscola: il malavitoso la vuol possedere a tutti i costi, vuol essere padrone di ciò che non-ha-tempo, una quasi dimostrazione d’immortalità. Quella bellezza che raramente si possiede – per brevissimi istanti, nelle sale di un museo -, lui la vuole tutta per sè, sempre. Perchè se l’arte non riproduce ciò che è visibile ma rende visibile ciò che non sempre lo è – o non tutti hanno la capacità d’intravederlo -, allora possedere quelle opere è mettere loro le mani addosso per ipotecarne non solo il passato nel quale sono nate, non solo il presente nel quale vengono contemplate-rapite, ma anche ipotecandone la vita futura. Mettono mano all’immortalità dell’arte per far sospettare all’uomo che anche ciò che ancora-non-è in realtà è già in loro possesso. Che alla storia futura qualcuno ha già iniziato a mettere mano.
Tenere in pugno un’opera di Van Gogh è tenere in scacco la bellezza tutta intera. Impugnare anche ciò che l’uomo ancora non è capace d’intravedere: «L’arte non è ciò che vedi – annotava Edgar Degas, il papà de “Le stiratrici” -, ma ciò che fai vedere agli altri». Raffaele Imperiale, uno dei ras del narcotraffico internazionale al quale viene ricondotto questo sequestro, probabilmente voleva mostrare esattamente questo: che chi ha in mano l’arte, possiede il mondo, ha messo il bavero alla storia. Il sequestro delle due tele era un po’ il sequestro stesso della bellezza, quella ch’è patrimonio mondiale dell’umanità: tolto l’indice di bellezza, il mondo morirebbe di disperazione, il mondo intero sarebbe d’una crudezza insopportabile. Liberare la bellezza, al contrario, è rimettere in circolo il respiro nella società umana, ricordare il senso ultimo per il quale ogni artista nasce, viene al mondo: «Mandare luce dentro le tenebre del cuore degli uomini. Tale è il dovere dell’artista» (E. Forster). Che poi, sotto-sotto, è sempre la solita storia che si ripete: l’uomo può far sentire piccolo un altro uomo solo nel modo sbagliato. Farlo sentire piccolo nel modo giusto è la finalità massima dell’arte.
(da Il Mattino di Padova, 2 ottobre 2016)