Quella chiesetta – blindata tra ferro e cemento – è l’emblema più visibile di quella chiesa immaginata da papa Francesco come un ospedale da campo dopo una battaglia. Una Chiesa in cui più che le diagnosi pedisseque e moraliste risuona l’annuncio degli annunci: “Dio ti cerca e ti sta trovando. Non te lo perdere, altrimenti sei perduto”. E’ l’incrocio nel quale Dio fissa l’appuntamento con loro, gente condannata e abituata ai tempi lunghi della galera. Di giorno in giorno, di domenica in domenica, di stagione in stagione quell’annuncio attecchirà nel senso più botanico del termine; con lo sguardo del Vangelo ciò che oggi sembra irrecuperabile, domani sarà recuperabile. Qui s’impara a desiderare l’impossibile degli uomini; che è poi il possibile di Dio.
Stamattina oltre ai vestiti dei giorni di festa, scenderanno con le borse della spesa: se tra le sbarre di un carcere è sospesa la libertà di un individuo, tra le sbarre del medesimo carcere può irrobustirsi il senso di dignità del medesimo. Quella dignità che chiede a gran voce di continuare a sentirti parte di una società più grande, di una società alla quale forse hai complicato la speranza tradendo la sua fiducia. Oggi quelle borse – piene zeppe, piene a metà, piene del poco che si ha – più che un ospedale da campo faranno somigliare la nostra chiesetta ad uno dei tanti “rivenditori autorizzati” della bontà del Signore. A spiare dentro quelle borse c’è la stessa identica mercanzia contenuta nelle borse di coloro che oggi, uscendo dai supermercati, aderiranno alla Giornata Nazionale della Colletta Alimentare: zucchero e riso, sottaceti e farina, passata di pomodoro e biscotti secchi. E poi pasta, tanta pasta in tutti i tipi. Nei loro sguardi c’è la soddisfazione dei giorni di festa, tradiscono quella pacata emozione di sentirsi parte di una pagina bella della solidarietà, ti raccontano la fatica degli acquisti: qualcuno ha barattato un pacchetto di tabacco con qualche chilo di pasta per poterla poi donare, qualche altro ha rinunciato a fare della sua cella un “supermarket” pur di donare qualcosa agli altri, qualcuno si è indebitato con i suoi coinquilini di cella pur di non essere da meno. Qualcuno ha fatto notare che “tutto quel ben di Dio” (nella Colletta del 2012 il carcere “Due Palazzi” ha raccolto 435 kg di alimenti) andrà anche a coloro che magari sostengono la “teoria della chiave della cella da gettare nel mare”: poco importa, anzi, il gesto sarà ancora più bello perchè nel nostro “ospedale da campo” s’impara a proprie spese, e non senza fatica d’umiliarsi, che l’amore vince l’odio e la vendetta è disarmata dal perdono. Punto e a capo.
Li guardi e pensi che questa gente sta organizzando – all’insaputa dell’istituzione carceraria intera – un’evasione di massa: non evadono certo “dal” carcere ma tanti di loro hanno già iniziato da anni ad evadere “nel” carcere. Perchè se è vero che non possono scegliere di aprire i cancelli e scappare, è altrettanto vero che loro hanno una possibilità molto più nobile tra le mani: quella di decidere in prima persona “come” vivere l’esperienza della detenzione. Anche qui, come allo stadio, la differenza è tra sole due possibilità: da protagonisti o da spettatori. Non basta certo un gesto a decretare un cambiamento di rotta: come, del resto, non basta una rondine a fare primavera. Però il volo di una rondine inizia a farti sospettare che l’inverno potrebbe avere le ore contate. Dietro le sbarre di una galera sono i piccoli dettagli a lasciarti il sospetto delle grandi narrazioni: in essi, sovente, ama nascondersi la sorpresa di un Dio certosino che, nel segreto angusto delle celle, ama liberare frammenti di luce nel regno delle tenebre. D’altronde è possibile essere uomini ovunque e in qualsiasi situazione. Per anticipare un frammento di umanità migliore.
(da Il Mattino di Padova, 1 dicembre 2013)