A me i vuoti piacciono: il vuoto mi parla più del pieno. In fatto d’amore, poi, la mancanza ha diritto di parola, la presenza deve prima alzare la mano per fare richiesta: non esiste vuoto più fondo della pretesa che qualcuno ce lo riempia. A casa ho voluto una stanza tutta vuota, tutta mia: “E qui, cosa hai intenzione di metterci?” mi dice qualcuno che viene a trovarmi. “Niente, voglio rimanga vuota: quando è vuota, è piena” rispondo io. Mi scrutano spaesati, come fossi un film straniero senza sottotitoli. Invece dico il vero: per loro, forse, una stanza è piena quando c’è una dentro una montagna di oggetti, quand’è arredata di tutto punto, ammobiliata. In caso contrario, per loro, è una stanza vuota. Non capiscono che una stanza così è riempita ma non è piena. L’unica stanza piena è quella vuota: tutta colma del suo vuoto, piena di se stessa. E’ un segreto che mi ha confidato quell’amico pazzerello di Antoine de Saint-Exupéry: quante volte, nelle notti di arresti domiciliari pubblici di questi mesi, m’ha fatto visita, nascosto nelle pagine dei suoi voli. “Ricordati la stanza vuota, Marco!” mi scriveva sui muri dell’anima come traccia di passaggi avvenuti. A casa sua, da bambino, amava proprio una stanza che era tutta vuota: «C’era la stanza vuota, quella di cui mai nessuno seppe a che cosa servisse – ha scritto in Cittadella –; forse non serviva a nulla, se non ad insegnare il senso del segreto e che non si penetra mai ogni cosa».
Perchè riempirli i vuoti?
In questi mesi ho sentito gente allarmarsi per i vuoti: piazze vuote, mercati vuoti, aeroporti vuoti. Strade – comunali, provinciali, statali, autostrade – vuote. Lo stadio, il teatro, l’outlet: vuoti. Chiese vuote, chiuse, senza popolo: «Nessun posto nella vita è più triste di un letto vuoto» (G. Marquez). “Nessuna fede è più triste di una domenica senza eucaristia” hanno pensato tanti. Altri, come forma di supplenza di quel vuoto, ne hanno inventate di tutti i colori: dirette, streaming, collegamenti da Saturno, messe da Marte, rosari da Plutone. Poi inni nazionali, regionali, paesani: dai balconi, sui tetti, alla mercè di tutti. Forse, senza saperlo, abbiamo peccato ad oltranza, qualora fosse vero quello che ha scritto la mistica Simon Weil: che «tutti i peccati sono dei tentativi di colmare i vuoti».
Quel vuoto, però, non era per niente vuoto: nessun vuoto è mai così pieno come quando ti sembra un vuoto assoluto. Un giorno, tra le navate del carcere, ho provato ad ascoltare quel vuoto. Il carcere è il vuoto della libertà, gli uomini sono sotto-vuoto: nessun vuoto, come la galera, è così pieno della libertà. Della mancanza di libertà. Un vuoto pieno di mancanza, però, ci vuole coraggio a dire che è vuoto. Ogni vuoto ha una sua voce: nostalgia, storie andante alla malora, la rabbia, l’angoscia, le grida. Rimpianti, rimorsi, cordòli. Tutto, eccetto che il nulla. Ho pregato, tantissimo, perchè questa epidemia finisse il prima possibile. Mentre ne invocavo la fine, però, non ho aspettato che finisse. Mi sono detto: “Abitala, per non perderti l’appuntamento con il vuoto”. L’abbiamo sperimentato tutti quel senso di fobia che ci assale in un autobus sovrafollato: tutti abbiamo bisogno di un po’ di vuoto attorno per riuscire ad esistere appieno.
Il vuoto è indispensabile alla vita.
«Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato.
Se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le fauci.
Non si chiude un abisso con l’aria» (E. Dickinson)
Chissà di che cosa sono fatti certi vuoti per essere così densi.
Il vuoto di Dio, poi, è pauroso solo da immaginare, figurarsi da sentire sulla pelle: ferisce, punge, graffia, morde. Dio, però, ha un vuoto su misura: ha delle dimensioni esatte, è inutile riempirlo di altra materia, si colma solo con il pezzo che s’incastra alla perfezione. Quel pezzo è un’Ostia, l’ultimo nascondiglio di un Dio così onnipotente da rischiare l’impotenza del vuoto come spazio d’intrigo, di congiure amorose, di sensi pronti all’esplosione. All’inizio di questa epidemia, mi è capitato tra le mani un vecchio appunto, usato a mò di segnalibro. Son parole di Benedetto XVI, pronunciate nell’Anno della Fede: «Sarebbe di grande utilità promuovere una sorta di pedagogia del desiderio, sia per il cammino di chi ancora non crede, sia per chi ha già ricevuto il dono della fede». La pedagogia, il desiderio, il cammino. Di chi crede, di chi non crede. «Non si tratta – continua l’emerito – di soffocare il desiderio che è nel cuore dell’uomo, bensì di liberarlo, affinchè possa raggiungere la sua vera altezza». Con un auspicio finale che, nel tempo della pandemia, ho indossato su-misura: «In questo pellegrinaggio – dice a mò d’augurio -, sentiamoci fratelli di tutti gli uomini, compagni di viaggio anche di coloro che non credono, di chi è in ricerca». Ancor più bello: «Di chi si lascia interrogare con sincerità dal dinamismo del proprio desiderio di verità e di bene». Il dinamismo, il desiderio, la verità, il bene: c’è tutto l’umano qui dentro.
Il vuoto non è lo spazio dove cadi, ma il tempo dove resti sospeso.
In attesa di chi vorresti accanto.
Di chi, magari, c’era da sempre: solo che aveva bisogno di un po’ di vuoto attorno per brillare, farsi notare, riprendersi il posto rubato.