Da sempre mi fanno innamorare gli animi maledetti, i maledetti della storia, i condannati alla maledizione. Quelli che, della maledizione, portano addosso le vesti, finendo per prenderne addirittura la forma, una forma che alla fine sforma. “Maledire”, se rovesciato, è “dire-male”: parlare male, giudicare male, fare del male. E’ la versione, in perpetuo aggiornamento, della maledizione iniziale. La vera maledizione, però, quando giustizia è fatta, è che chi ha maledetto si dimentica di aver detto-male. Non per questo la maledizione diventa benedizione: rimane una sfuriata di male, tempesta d’arroganza, manifesto di cattività. Le persone peggiori, poi, sono quelle che sanno quali tasti toccare per farti male: su quel punto ci schiacciano sopra tutto il peso della loro cattiveria. Nessuno pensi che la maledizione sia qualcosa che abbia a che fare con il sovrumano: al contrario, è solo qualcosa di meno umano.
Ne sanno qualcosa Alex e Sandro: il primo, di cognome, fa Schwazer (nella sua bacheca un oro olimpico nella 50km di marcia, nel 2008, a Pechino), il secondo fa Donati (il guru dell’antidoping). Il primo per il genio atletico, per la schiena-diritta il secondo, la maledizione si è scagliata su di loro. Il motivo lo sanno tutti, in primis quelli che a loro hanno fatto del male, facendo del male al medagliere italiano: Schwazer, nella sua disciplina, non ha rivali al mondo. Donati – mescolate il fiuto, la scienza e la coscienza sua – è il terrore dei truccatori, i fannulloni legalizzati, quelli protetti dal sistema. “Li abbiamo fatti fuori definitivamente!” hanno pensato in quel maledetto capodanno 2016 manomettendo la provetta di Alex. Peccato non avessero calcolato, lor signori, il principio-Allen: «Il mondo – scriveva Woody – è diviso in buoni e cattivi. I buoni dormono meglio la notte, i cattivi se la spassano meglio di giorno» (W. Allen). La notte, da fattore meteorologico, si è fatto umano, però: chi aveva spento la luce, si è trovato adesso bloccato nella galleria del buio, senza sapere più vederci chiaro, vederci fuori. A coloro a cui hanno spento la luce, invece, è rimasto il ricordo di dov’è l’interruttore: si chiama volontà, e chi la conosce assicura ch’è una forza molto più potente del vapore, anche dell’energia elettrica. “Mister, sei pronto? (Ri)proviamoci”. La telefonata dev’essere parsa di una elettricità unica anche ad uno come il professor Sandro Donati, allenato a fiutare nell’impossibile una via per farlo diventare possibile. Detto e fatto: Roma, Parco delle Valli sull’Aniene, pieno giorno, novembre 2019. Alex Schwazer sta marciando: aveva giurato d’aver appeso le scarpette al chiodo, di aver chiuso con l’agonismo, di aver detto addio a quel mondo traditore. I giuramenti, si sa, sono fatti per essere smentiti. Eccolo, dunque. Con lui, cronometro al collo e l’immancabile agenda in mano, c’è il suo angelo-mèntore, l’angelo del marciatore-maledetto: il prof Donati. Fa strano, a qualcuno, vederli ancora sgomitare assieme lungo un argine di periferia: sembra che il tempo si sia fermato a quel disgraziato 2016, a pochi giorni dalle olimpiadi brasiliane. Sembra ieri, anche le immagini paiono lontane. I ricordi, a volerli afferrare, tendono ad affievolirsi nella malinconia. Sembra.
Invece, non è per nulla come sembra. I due maledetti ritornano a benedire quel gesto che li ha uniti. Li hanno condotti fin sul patibolo, li hanno esposti al pubblico ludibrio: pochi avevano capito che dietro quel ragazzo dai muscoli di ferro c’era un uomo, che i cattivi avevano defraudato del grande sogno. Adesso, che da sotto la montagna di cenere, abbiamo scoperto esserci ancora delle braci accese, in tanti ricorderanno l’insegnamento di Confucio: «Si può sconfiggere il generale che comanda tre armate, ma non si può smuovere la ferma volontà di un uomo semplice». Se poi quell’uomo, oltre che semplice è pure onesto, prima di sfidarli in battaglia occorrerebbe informarsi di che pasta è fatto il loro ardire. La loro voglia matta e testarda di sputtanare il male.
La cattiveria umana, che è grande, si compone in gran parte di invidia e paura: invidia per sentirsi incapaci di fronte all’altro migliore-di-me, paura di doverlo sfidare sapendo di perdere in partenza. “Abbiamo vinto noi!” dicono i cattivi, gli artefici di questa triste faccenda di doping-mascherato destinata a crocifiggerli. Gli altri due, invece che dire “No, abbiamo vinto noi”, tacciono. Riprendono a marciare. Una risposta che manco i cattivi s’immaginavano. Il male non resta mai senza punizione, «è che la punizione, a volte, è segreta» (A. Christie).
Resta segreta finché, lungo un argine, non inizia a mostrare il suo volto.
(da Il Sussidiario, 11 novembre 2019)
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