IMG 0167 copiaL’estate, che, per la maggior parte di noi, coincide con il periodo delle vacanze, dovrebbe essere celebrazione ed esaltazione della Bellezza. Dovrebbe esserci un tempo dedicato e studiato appositamente per godere della bellezza, che possiamo trovare in ogni luogo: nella natura, nell’arte, in una gita turistica, in un cammino spirituale, accanto a noi, nel tempo passato coi nostri figli e nipoti, nel tempo regalato a una persona sola, nelle stelle che brillano nel cielo o nella perfezione di uno stelo di grano, stupendo nella sua frugale e – insieme – imperiosa semplicità.
La Bellezza è intorno a noi e anche dentro di noi: ne siamo avvolti e coinvolti. Tuttavia, troppo spesso, siamo eccessivamente preoccupati e chiusi dentro al nostro io da non riuscire a scorgere le parole mute che ogni giorno l’Universo interno ci rivolge, come una musica. Troppa fretta per accorgerci che nella crepa del marciapiede che percorriamo ogni giorno è spuntato un fiore; è d’un rosso vivido e sembra proprio fare di tutto per farsi notare, ma inutilmente. O per accorgerci che c’era una luna splendida nel cielo, mentre tornavamo da una serata con amici. La nostra strada è spesso costellata di tante piccole meraviglie che dovrebbero rallegrarla e renderla meno faticosa: tuttavia non riescono nell’impresa perché non ci prestiamo attenzione. Sfioriamo ogni giorno la Bellezza e non riusciamo a goderne, ci lamentiamo, esprimiamo un pessimismo cosmico ogni qualche volta capita qualcosa di negativo, ma sembriamo incapaci di cogliere il bello nelle piccole cose, come un dono. Forse, il rischio è proprio quello di aver perso la comprensione di cosa sia “dono”
«Ma dove corri, dove vai?» cantavano il Gatto e la Volpe della canzone di Edoardo Bennato. Correre, senza fermarsi sembra l’ordine del giorno. Proprio qui si annida il “mostro” da sconfiggere. Troppo assorbiti dalle “cose”, non riusciamo più ad apprezzare le persone e il risultato è una corsa continua, ma senza un senso e una direzione: rischiamo quindi di “girare a vuoto”, senza meta. Alienati come l’operaio di “Tempi moderni” di Chaplin, ripetiamo azioni che hanno perso ogni significato, perché sono diventati unicamente reiterazioni di atti parte di un rituale stancamente continuato nel tempo, senza voglia, senza fascino, né attrattiva. Ripetute solo in virtù dell’abitudine, impregnate di noia e apatia, circondano le nostre giornate di un alone di tristezza e contribuiscono a quella stanchezza mentale che ci distrugge, prima dentro e poi fuori, rendendoci incapaci di assaporare tutti i colori della vita!

Abbiamo perso la preziosità della quotidianità. Abbiamo una tendenza collettiva a spingere le nostre aspettative verso il sabato sera, il week-end, le ferie, le vacanze, questo o quell’evento particolare, che attendiamo con trepidazione ed entusiasmo. Il risultiamo: sopravviviamo alla realtà di tutti i giorni, vedendola spesso anche più noiosa di quanto effettivamente sia, spingendo il nostro sguardo sempre oltre, rinunciando per principio a vivere con entusiasmo l’attimo presente, alla ricerca del prossimo divertimento.
Dimenticandoci due cose essenziali. La prima (che sembra banale, ma non lo è) è che il modo migliore e più efficace per essere sicuri di NON divertirsi è avere l’obiettivo di divertirsi. Per quale motivo? È presto detto. Porsi tale obiettivo instilla nell’individuo un surplus di ansia e tensione che va a condizionare tutto quanto conseguirà dopo. E anche qualora si divertisse, non lo considererà abbastanza, perché sarà inferiore alle ampie aspettative che si era creato nella mente.
La seconda è che le ore che trascorriamo a lavoro non sono più veloci né più lente di quelle che trascorriamo a lavoro, anche se il tempo relativo che percepiamo può farcelo pensare. Per questo, forse, sarebbe opportuno cercare con cura quel lavoro che ci identifichi e di cui potremo essere felici e soddisfatti, anche quando avremo una giornata no, perché è un’attività che riteniamo gratificante e valorizzante per le nostre competenze ed abilità. È pur vero che, di questi tempi, in cui è già una grazia averne uno, purtroppo tanti accettano quello che viene, anche se non rispecchia quel che sono. Significa condannarsi all’infelicità? Certamente no. Se, da un lato, la precarietà sta diventando una grave piaga sociale, che arriva a minare anche i rapporti personali e la gestione familiare, è anche vero che una maggiore mobilità lavorativa potrebbe anche favorire la ricerca e il riconoscimento di un lavoro diverso dal proprio, fino alla sua accoglienza in sostituzione del precedente impiego. Non tutti hanno queste opportunità, magari; ma tutti possono riscoprire uno sguardo puro e teso a scoprire il bello intorno a sé, che sappia accogliere tutto ciò che di positivo la vita saprà donare. E, una volta raggiunto questo nuovo sguardo, sarà più facile che qualcosa di bello accada. Non perché in altro modo non possa accadere, ma perché noi siamo protagonisti della nostra vita e il nostro modo di guardarla influenza enormemente le occasioni che poi effettivamente arrivano: chi pensa già positivamente, è propenso anche ad agire in modo propositivo e intraprendente, ecco perché – fattivamente – contribuisce al proprio successo!
Nell’intento sempre più rocambolesco di far tornare i conti alla fine del mese, ci mettiamo a fare complessi calcoli in base al loro costo, per capire cosa è possibile permettersi e cosa va oltre le proprie disponibilità economiche. In questo complesso calcolo sulla base del quale si gioca la nostra quasi integrale esistenza, dimentichiamo di assegnare un valore non sono alle cose, ma alle situazioni, alle persone, alle sensazioni, ai sentimenti. Correndo il rischio di vivere una vita arida, perché piena di cose, magari, ma povera di contenuto. Ossessionati dalle proprietà quantitative, ci troviamo spiazzati di fronte a ciò che è qualitativo, cioè quantitativamente non valutabile, perché incommensurabile. Come la ricchezza dell’uomo e dei legami che può intessere con i suoi simili!

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