La necessità li ha costretti ad approdare quassù, perchè i feudi di periferia vanno difesi sempre e comunque, anche a rischio di rimettercene la faccia e andarsene vestiti di fischi e di urla. Ad un certo punto anche il premier Berlusconi, il suo fidato caposcorta Bossi e persino il Napolitano che quassù ha studiato si sono decisi a far visita al Veneto in stato di emergenza. Premesso che noi siamo quelli del primo Berlusconi – quello che disse “ghe pensi mi” – e che nelle calamità naturali sappiamo trarre forza dalla nostra millenaria e saporita storia, ci rimane un pizzico di amarezza per l’elegante messa in disparte riservata alla nostra terra e alla nostra gente dall’Italia intera. Quell’Italia che tante volte i nostri padri, i nostri soldati e i nostri uomini del volontariato sono scesi ad aiutare, a risollevare e a tirare fuori da pesantissimi disastri naturali: ultimo in ordine di tempo il prezioso e puntualissimo intervento a favore de L’Aquila colpita dal sisma. Assieme ad altri mille gesti anonimi e firmati col cuore.
Ci hanno fatto credere che questa è la conseguenza del nostro mostrarci autonomi, indipendenti e autosufficienti. Ma anche fosse così, rimane pur sempre l’eleganza di prestare una mano, fosse anche solo in segno di vicinanza e di rispetto per un lembo di terra che all’Italia ha dato e sta dando tantissimo delle sue risorse umane, spirituali ed economiche. La nostra storia ci ha insegnato a non piangerci addosso, a non guardare ciò che potrebbe essere stato ma a fare sempre e solo i conti con ciò che succede e quello che potrebbe avvenire. Magari anticipandolo facendo forza sui nostri talenti, sulla creatività e sul saper leggere i segnali all’orizzonte della storia. E’ con questa prospettiva nel cuore che abbiamo affrontato emergenze più lacrimose di questa alluvione, sopratutto nel cuore: il pianto per figli partiti senza biglietto di ritorno, il dramma di padri costretti ad emigrare altrove in cerca di fortuna, il sorriso di madri sempre e solo sulla soglia in attesa, l’eroismo di gente dalla storia comune disposta a sacrificarsi per difendere il nome, il profumo e la magia dei suoi confini. A noi la compassione non è mai piaciuta: ci rende forti e orgogliosi dell’Italia il gesto della vicinanza. La compassione dice l’impotenza e la rassegnazione, la vicinanza racconta la forza di rialzarsi, il braccio teso in segno di aiuto, la semplice voglia di non lasciarsi piegare dalla paura di una Natura avversa.
Meno male che il premier nel giro delle questure ha evitato la liturgia delle barzellette, della semplificazione e dell’ironia che tutto offusca: si è limitato a raccogliere ciò che spetta a chi porta i soccorsi di Pisa. A guerreggiare ci hanno pensato, però, i politici locali che non hanno perso l’occasione – di fronte a morti, alluvionati e rifugiati – di scaricarsi le colpe a vicenda. Ennesimo segno di un certo modo di gestire il bene comune che ha fallito di fronte alla richiesta di serietà. Come quello del ministro Sandro Bondi – probabilmente più capace nell’arte poetica che in quella umana – disposto a filosofare attorno al crollo di quel muro di Pompei (con tutto il rispetto per la storia che reca impressa) e dimentico che anche qui, forse, fra millenni potrebbero esserci mura che tengono impressi lineamenti di persone morte abbracciate. Conoscere la storia non è una semplice passione d’antiquariato, ma un voler imparare dal passato per non ripetere ciò che è già stato. E già stato pagato.
Ma nemmeno prostrati e in ginocchio sogneremmo mai di tornare indietro. Potremmo gridare il nostro federalismo fiscale e invocare quello economico. Ma non ci sogneremmo mai di chiedere il federalismo umanitario: non possiamo contraddire noi stessi. D’altronde per chi nasce signore l’eleganza non sarà mai un optional occasionale. E il Veneto rimane pur sempre una bellissima signora. Anche quando, bagnata e infangata, scava nel fango.