Background collection of colourful preschool numbers for your schooling, learning, teaching or education concept

Non tutto ciò che può essere contato conta, e non tutto ciò che conta può essere contato. Può, dunque, la fede appartenere alla conta della numerazione, alla stregua di tutto il resto? Un interrogativo che mi è nato leggendo il titolo di un articolo apparso giorni fa, in occasione della Giornata Missionaria Mondiale di oggi: «Cresce il numero dei cattolici nel mondo, sono 1,32 miliardi». Essere cattolico, a rigor di logica, è la maniera più completa di obbedire al mandato di Cristo: essere suoi discepoli e portare Cristo a tutti. Cattolico, dunque è essere totalmente discepolo, totalmente missionario, totalmente cristiano. Il cuore della fede, che è sempre un intreccio di luce e di tenebra, di abbastanza-splendore e abbastanza-oscurità. Da quest’angolatura, la vita è il dono che Dio ci ha fatto, il modo in cui la viviamo è il dono che noi facciamo a Dio. Vivere è rispondere.
Si può, dunque, metter un numero a tale processo, senza tradire l’assurdo di credere «che il deserto può fiorir in una notte» (P. Mazzolari)? Non solo: c’è anche chi, senza per questo sentirsi inadatto, eredita la fede come ha ereditato un terreno, un casato, un titolo nobiliare, una casa. Una sorte di fede ereditata, per censo. Nessuna eredità, però, puoi dire di possedere davvero se non rischi di rimetterla in gioco: quel rischio, ch’è necessario, mette in palio la proprietà di un’eredità che, altrimenti, resterebbe natura-morta. Và, dunque, anche costui “conteggiato” come cattolico sapendo che la sua fede è ereditata, non scelta? E di chi dice d’essere “cattolico ma non praticante” – un non-senso, ma c’è chi di se stesso afferma questo – quale sarà la casella: cattolico oppure no? «Il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace» scrive Papa Francesco nella sua enciclica Fratelli tutti, ovviamente contestata per quel suo anelito alla fratellanza universale. Cioè ci si calcola cattolici, ma poi si rifiuta il concetto di universalità dell’umano, ch’è il basamento di quella cattolicità che diventa “stelletta” da appuntarsi nei giorni di commemorazione. Il numero è bellissimo: è un racconto, una proiezione, una sinfonia. Il numero è un pericolo, anche: a forza di sommarci per ingrandire il risultato, ci siamo scordati che, in materia di fede, il numero più grande non è 1,32 miliardi ma è sempre il solito numero: il due. Come in ogni storia d’amore, anche nella fede il contrario di uno non è zero, centomila: è due. Numero che racconta della compagnia, di intimità, di scelta: “Tra tutti/e, io scelgo te. E con te (in due) partiamo!” Il due di un uomo e una donna, di una creatura con il Creatore, di un cuore col suo giusto mezzo: due è il principio di ogni somma infinitamente grande, il contrario di star da soli al mondo. Senza il due, di me-con-Dio, 1,32 miliardi è un numero vuoto.
Di chi non appartiene alla numerazione cattolica, dobbiamo dunque dirgli che è senza-fede? Eppure la fede non si perde mai: il massimo che la si potrà costringere a fare è che essa cessi di plasmare la vita. Che diventi arredamento o bigiotteria. E’ dai tempi della Scrittura che cercare di censire le operazioni del Signore è uno dei rischi più avventati: per aver tentato il censimento, Davide pagò uno scotto pachidermico. Erode visse la beffa di essere riuscito a censire tutti, eccetto Uno: quel Bambino che gli rovesciò tutto il pallottoliere. “Un titolo è solo un titolo, non darci tutta questa importanza!” dirà qualcuno. Eppure, dietro ogni titolo, sta nascosta una possibile lettura del mondo: “Stiamo aumentando, dai: siamo di più degli altri. Li abbiamo superati”. Ed essere cattolici rischia di diventare dirsi-cattolici pur di salire nel carro del vincitore. L’unica numerazione possibile però, nel caso ci sia di mezzo Cristo, è una sola: intuire se 1+1 – se io e la mia fede – siamo capaci di mettere incinta il cuore di qualcun altro, per riuscire a generare vita. Se no rimarremo 1+1: somma, non-comunità. Quella che, certe volte, ha bisogno dei numeri per sentirsi distesa. E non ricordare che la fede, certe volte, si spegne anche per (solo) apparente buona-educazione.

(da Il Sussidiario, 18 ottobre 2020)

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Dal 9 ottobre, in tutte le librerie, Ciò che vuoto non è (San Paolo, 2020), il nuovo libro di Marco Pozza
Il vuoto: «Mesi di vuoto dappertutto: dentro, fuori, in basso, qualcuno temeva pure lassù. Non è stato così: eppure “benvenuti alla resa finale!” hanno pensato in tanti». E se quel vuoto fosse stata una misura: “Quanto ti manco?” In una casa, l’unica stanza piena è quella vuota: è tutta colma del suo vuoto, di se stessa. E’ davvero necessario riempire ogni vuoto a tutti i costi?
In Ciò che vuoto non è l’autore ripercorre gli articoli del Credo cristiano alla luce del vuoto dei mesi di pandemia: «L’uomo ha diritto di voto, la bellezza ha diritto di vuoto per brillare» scrive. Che nome dare a quel vuoto? Per chi crede il vuoto è una mancanza piena di nostalgia, per chi non crede è pur sempre un’esperienza mistica: certe domande, comunque, hanno bisogno di vuoto attorno per respirare. Ripartiamo, dunque! Da quel sepolcro che le donne, a Gerusalemme, hanno trovato vuoto il mattino di Pasqua. E’ d’allora che quella cristiana è fede fondata sul vuoto, fede che ha diritto di vuoto.
Tra memorie paesane e sprazzi di attualità, l’autore si concede delle lezioni di lentezza per cercare una risposta alla domanda che ci interpella ovunque, soprattutto sul ciglio dell’afflizione: “Perchè credere quando attorno è buio”? Nell’emergenza il Vangelo resta uno spicchio di luna a forma di falce: la parte fulgente illumina quella oscura. Che vuota non è (dall’aletta di copertina).

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