Ammaliati, anche un po’ stregati, dall’incantesimo di tre donne rivestite con i colori dell’oro olimpico – Arianna Fontana, Michela Moioli e Sofia Goggia – c’è una quarta donna che, pur relegata nel sottobosco di chi non ha conquistato un podio, ha saputo narrare lo spirito olimpico che abita il cuore di un’atleta quando affronta il grande appuntamento a cinque cerchi. A Carolina Kostner, una sorta di dea nella cattedrale del ghiaccio, non è riuscito di portare a casa nessuna medaglia da PyeongChang 2018. Le medaglie, lo san bene gli atleti, o sono di oro-argento-bronzo oppure non sono medaglie: la medaglia di legno è premio-di-consolazione, una mezza ironia per chi arriva ad un passo dalla gloria. Con Carolina, invece, la storia sembra fare un’eccezione: la sua medaglia più bella – messa al collo del suo pubblico – abita la stringatezza delle sue parole. Parole pesate, quasi d’imbarazzo, leggerissime come quel suo perpetuo tentativo di volare. Di «vivere balenando in burrasca», come i gabbiani di Cardarelli.
All’inizio di un’olimpiade, le parole pronunciate rischiano di scoperchiare l’urto impetuoso dell’ambizione. Le sue, invece, parevano quasi distaccate tanto era la modestia della quale erano intessute: «Sono grata e felice di essere qui – disse Carolina prima dell’esordio -. Non l’ho mai dato per scontato. Per questo non mi aspetto niente, se non di riuscire a dare il meglio». È l’eleganza tipica di un’atleta che ha fatto dello sport la sua forma di educazione: riconoscente per il fatto d’essere riuscita a fare della sua grande passione uno splendido mestiere, l’animo è già sazio. Non resta che il sogno di riuscire a ricambiare la generosità dando il meglio di sé. Allenandosi a partorire il meglio di sé. Che, tradotto nella sua disciplina, è lo sforzo di cercare la miglior versione di se stessa. Per farlo, il suo segreto è disarmante come quel sorriso ch’è sempre stato il suo marchio di fabbrica: «È bello poter condividere la mia passione col resto del mondo». Una passione è qualcosa che infiamma l’animo, fa battere il cuore, accende l’urto di forze insperate: condividerla con tutto il resto del mondo è la versione sportiva della prima testimonianza cristiana: «Abbiamo trovato il Messia!» (Gv 1,41). È il mistero di una scoperta personale che, condivisa, moltiplica il furore e la grazia.
Restare a spasso lassù, nell’Olimpo degli dei, per il lungo tempo di quattro olimpiadi non è materia comune: le avversarie, all’olimpiade coreana, avevano la sua età-diviso-due. Rimanerci è attestazione certa d’aver saputo rialzarsi più che volare. Per commentare il suo salto non riuscito, le parole sono dorate: «Mi son detta: “Lo provo, poi vediamo quando atterro”. Alle volte anche un po’ di ironia può servire». Imparare a calcolare il fallimento, nella sua epica sportiva, è stato il segreto di una longevità dell’anima che s’annuncia nella sua apparente calma del parlare: «Ho affrontato ogni Olimpiade in fasi diverse della mia vita e quindi anche gli stati d’animo cambiano». Certo, perché nessuno è mai uguale all’altra versione di se stesso, quella del giorno prima, della scorsa olimpiade. È per questo che il fuoriclasse deve sempre fare i conti con la sua ambizione: per riacciuffare nuovi stimoli, spostare l’asticella, fiutare una miglioria. Per riuscire a barattare un rischio in più con la possibilità di un nuovo margine di stupore.
Nessuna medaglia, stavolta, al collo di Carolina. A guardarla bene, però, ce n’è una che brilla più di tutte: «Quel che nessuno sa è che sono ancora una bambina anch’io», disse sorridendo guardando le avversarie-bambine. Quanto sarebbe felice quel Piccolo Principe per un’ammissione così sopraffine: la non-vergogna di riconoscersi bambini è il segreto per spiccare voli: «Il punto non è trovare la perfezione, ma scoprire i propri limiti e rialzarsi quando si cade». Da asciugarsi gli occhi, sapendo che questa è stata l’ultima olimpiade di Carolina.
Una donna che è riuscita a volare, tenendo piedi e parole attaccati a terra.
(da Il Mattino di Padova, 25 febbraio 2018)