Mi ha sempre fatto tanta tenerezza il bruco: è lui che fa il lavoro sporco del manovale, ma poi è sempre la farfalla a prendersi gli applausi. “Non è giusto! È di un’ingiustizia spaventosa!” recrimino ogni volta che vedo snobbato il lavoro dei bruchi. “È legge di natura, di cosa ti lamenti?” mi potrebbe ribattere qualche scienziato. Sarà pur vero, ma non toglie il dispiacere di non veder riconosciuto il lavoro al bruco. Che poi le leggi, se restiamo in natura, sono come ragnatele: le mosche grosse le sfondano, mentre le piccole rimangono impigliate. Il quesito, dunque, rimane là, imperturbabile, irrisolto: che cos’è la giustizia e che cos’è ingiustizia? “Semplice – dirà qualcuno – giustizia è dare a ciascuno il suo” come insegnavano i latini (unicuique suum tribuere). Le nonne ci hanno sempre creduto!
Fosse vero, perché allora arrabbiarsi di quel padrone che, a fine giornata, ha pagato lo stesso salario ai lavoratori della prima come dell’ultima ora? Quella volta, a sentire il Vangelo, n’è venuta fuori una mezza sommossa. Eppure, tutto torna: non è forse ingiusto, nella scuola, chiedere al figlio d’un operaio le stesse prestazioni di quello d’un professore universitario? E all’uomo operato per l’ernia esigere che abbia la stessa forza d’un giovane arzillo? Ad uno appena uscito da galera gli stessi riflessi nella guida di un pilota automobilistico? Tanto, giunti alla fine, la giustizia è comunque rispettata: quante ingiustizie al grido di “giustizia è fatta?” Poi, magari, chi perde tacerà, o si arrabbierà oltremisura: lottare contro l’ingiustizia porta sempre alla santità o alla sommossa. “Di cosa scandalizzarsi, non capisco!” obietterà qualcuno. Di nulla, ovvio: il mondo, certi giorni, sembra non stare in piedi senza ingiustizia. “Scegliamo il male minore, forza!” Ma resta, comunque, il fatto che, seppur minore, è sempre male. Sempre ingiusto. Passo la parola ad un poeta: «Non so che cosa voi chiamate una società perfetta – è il dolore di Paul Claudel – Ma non vi è società vivente fuori di quella ch’è animata dall’ineguaglianza e dall’ingiustizia». Dategli torto, senz’apparire moralisti.
A dar retta all’uomo, tutti s’indignano dell’ingiustizia, soprattutto quand’è in prossimità nostra: “Non è giusto, meritavo altro. Ingiustizia!” L’aggravante, poi, è che è più facile indignarsi per un’ingiustizia fatta dall’altra parte del mondo che per una discriminazione avvenuta al dirimpettaio d’appartamento. Un’ingiustizia a portata di mano, sul pianerottolo. Qualcuno, a fasi alterne, propone di mettere mano all’ingiustizia, salvo poi scoprire che tutto cambia in modo che l’ingiustizia rimanga sempre la stessa. Punto e a capo: «Il ricco commette ingiustizia, per di più grida forte: il povero riceve ingiustizia, per di più deve scusarsi» (Sir 13,3). Il capolavoro dell’ingiustizia, insomma, è quello di voler apparire giustissima pure essendo di un’ingiustizia smisurata. Perché, dunque, lagnarsi? «Eppure tutti si lagnano – scrisse Italo Svevo – Quelli che non hanno avuto niente dalla preda muoiono gridando all’ingiustizia e quelli che ne hanno avuto parte trovano che avrebbero avuto diritto ad averne una parte maggiore». E’ la vita, concordate?
Resta l’altra giustizia: «Arriverà un giorno in cui» minacciò fra Cristoforo al bullo di don Rodrigo. “In cui” il problema non sarà fare la cosa giusta, ma saper qual è la cosa giusta, tra migliaia di simili. Anche perché, Vangelo alla mano, è anche facile essere buoni: il difficile è essere giusti. Ecco spiegato il motivo per il quale anche il bene va fatto bene, altrimenti corre il rischio di diventar male! Si dice – si sente dire da altre parti, non soltanto in galera – che non esiste giustizia sulla terra. Esisterà, forse, nel Cielo? Esistesse, la cosa più giusta da sperare è che non assomigli a quella quaggiù in terra, dove spesso si commettono delle ingiustizie non solo facendo qualcosa, anche non facendo. Detto ciò, il cuore altro non può sperare che nell’ingiustizia di Dio. Visto che non esiste giustizia in amore: altrimenti il figlio canaglia, zoccolo e prodigo sarebbe ancor chiuso fuori dalla porta. Anche un Dio tutto misericordia, però, è un Dio ingiusto.
Avvertenza redazionale
Ha affrescato le sette virtù: “Le conoscevamo già, a che serviva dipingerle!” dicono in tanti. Hanno ragione, eccole: prudenza, fortezza, temperanza, ira, fede, carità, speranza. Ma quando tutti si aspettavano contrapponesse loro i famosi sette vizi capitali – ira, avarizia, invidia, superbia, gola, accidia, lussuria – Giotto stupì l’attesa, innervosendola un po’. Si divertì a ingarbugliare le acque con sette viziacci, personalizzati secondo il suo genio: stoltezza, incostanza, ira, ingiustizia, infedeltà, invidia, disperazione. A Padova, nella Cappella degli Scrovegni, sono secoli che la gente, osservando, va riflettendo.
In attesa di #VizieVirtù (prossimamente sul NOVE), con #igiovedìdigiotto ci alleniamo alla Pasqua, attraversando la Quaresima assieme a Giotto di Bondone. Ogni giovedì mattina, prendendo la palla al balzo dal suo genio, rifletteremo su un vizio e la virtù che il pittore fiorentino le contrappone. Perchè nessun uomo, nessuna donna è tutta virtù o tutto un vizio: siamo tutti intrecciati di entrambi. Una matassa è il cuore dell’uomo, il campo di battaglia in cui lottano Dio e il Diavolo, come insegnò Fedor Dostoevskij.
Com’era illustrato negli sguardi del Nazareno.