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Con il Carnevale da poco alle spalle, accompagnato dal suo corredo di maschere, travestimenti ed eccessi, siamo giunti al tempo della Quaresima, che, ogni volta, ci pone innanzi mille interrogativi. Primo fra tutti, proprio se, ancora, essa abbia senso e non rischi, in un mondo in cui la fede pare ininfluente e sempre più secolarizzata, di essere una sorta di tradizione anacronistica, un retaggio dei tempi antichi, che diventa la nota stonata nella sinfonia della quotidianità che il 2021 ci offre.
Paradossalmente, è proprio il Carnevale ad offrirci il primo spunto di riflessione, per provare a rispondere a questo interrogativo. Di pizzo, di plastica o di cartone, simbolo del Carnevale sono proprio le maschere, a coprire il volto, a velare le espressioni facciali, a dissimulare le reali emozioni che muovono il nostro viso al pianto o al riso, all’imbarazzo o alla concentrazione, alla serenità o all’inquietudine. All’interno dei festeggiamenti carnascialeschi, sono lecite e consentite: sono l’illecito che diventa lecito per un momento, sono l’eccezione che conferma la regola.

Quante volte, però, ne indossiamo, quotidianamente? Di piccole e di grandi, di sottili o di pesanti, ogni tanto, avvertiamo la verità del leit-motiv di Luigi Pirandello: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”.

A parole, infatti, diciamo di amare la verità e di volerla ricevere. Nella realtà, non sempre è così. Da una parte, ci ritroviamo schiavi dell’altrui consenso, per cui, più o meno consapevolmente, ci ritroviamo a modificare noi stessi, il nostro modo di fare, talvolta persino i nostri gusti o le nostre abitudini, per compiacere il gruppo dei pari od il partner. Naturalmente, non è da intendersi la gentilezza di rinunciare ad una propria preferenza, per far felice un’altra persona, bensì quella tendenza, più o meno marcata, di adeguarsi, di volta in volta alla situazione, assumendo quel volto e quel ruolo che, in quel contesto, diventando rassicuranti per gli altri, rinunciando alla propria singolarità, al proprio senso critico, in luogo di una più agevole accoglienza, che finisce col risultare, inevitabilmente, falsata dal nostro atteggiamento di “mimetizzazione”, più o meno consapevole che sia. Dall’altra, non ci è neppure facile accogliere la verità, su di noi, quando è scomoda, un po’ ruvida, priva dei convenevoli che le convenzioni sociali (talvolta ipocrite) impongono.

D’altro canto, con l’inizio della Quaresima, la liturgia ci mette innanzi uno scenario particolare. Maestoso e misterioso, arido e screpolato come le labbra d’un viandante, denso di silenzio, ammantato di solitudine, rallegrato soltanto in luoghi sparsi da oasi, giusto per non perdere la speranza che, anche nei terreni più aspri, ci possa essere un fiore più tenace ad aprire la terra, per trovare una goccia d’acqua e sapersene accontentare. È il deserto.

Giovane o vecchio, malato o sano, esperto o pioniere, qualunque deserto porta – comunque – un dono in eredità: il deserto ti spoglia. Una di quelle spoliazioni che graffia la pelle, per purificare l’anima. Ci sono dolori che diventano essenziali, come essenziale è l’acqua che sgorga dalla roccia, senza la quale non è possibile la vita sulla terra. Allo stesso modo, non c’è amore, senza sacrificio. Chi ama, può comprenderlo. Non esiste, sulla terra, vero amore che non contenga in sé la propria dose di dolore. Forse, non ci è proprio possibile, in altro modo, comprendere l’amore. Sta di fatto che questa è la nostra esperienza.

Possiamo essere più o meno ricchi, ma è propria dell’uomo quella bramosia di possesso che ci porta a far sì che non usiamo delle cose, ma ci lasciamo usare da queste ultime, lasciamo che ci dominino, perdendo così la nostra libertà. Quest’attitudine non dipende dalle cose possedute, ma appunto dal nostro sguardo su di esse: per questo, può esserci soggetto tanto il povero, quanto il ricco; chiunque sia preso dalla gelosia delle proprie cose e ne diventi dipendente, qualunque sia tale oggetto del desiderio.

Il deserto ci spoglia di ogni superfluo, ci invita all’essenziale e purifica i nostri desideri, così che, come passati ad un setaccio, rimangano solo quelli veramente rilevanti per la nostra vita, quelli che ci fanno crescere e maturare come persone, che ci valorizzano e ci fanno fiorire, nel corpo e nello spirito. Come un’oasi nel deserto.

Ecco perché, ancora oggi, la Quaresima è attuale.

Perché «certa specie di demoni si scaccia solo con la preghiera e col digiuno» (Mt 17,21). È importante legare questi due aspetti della spiritualità cristiana, per non rischiare di scivolare in una retorica dualista, che ben poco ha di cattolico. Il digiuno è – da sempre – legato alla festa che segue: in un certo senso, la festa, di cui il digiuno è preparazione, è presente proprio come attesa e tensione profonda di anima e corpo. Il digiuno (applicato con ragionevolezza, non fine a se stesso e congiunto alla preghiera) può diventare allora scuola di libertà.

Libertà dai cliché. Dalle abitudini feriali (comprese quelle alimentari). Libertà dal farmi dettare dagli altri cosa fare. Libertà dal giudizio altrui e dal mio, per pormi – unicamente – sotto l’occhio di Dio, che, guardandomi con l’amore più vero ed autentico, è l’Unico a conoscermi davvero, in ogni mio tratto.

Il deserto suggerisce il ritorno all’essenziale: quell’essenziale che mi mostra il mio vero volto, quello che Dio vuole vedere ed incontrare. Quell’essenziale che apre la strada alla libertà di una coraggiosa autenticità.    


Fonte immagine: Pixabay

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