Giovanni è un bambino di tre anni e mezzo. Non sa ancora leggere ne tanto meno scrivere: però ama assai giocare. E questo – tra castelli di sabbia, pentole che battono e scorribande in bicicletta – è per lui il modo migliore di dare una forma ai suoi piccoli sogni, ai suoi grandi disegni, a quegli scarabocchi che, nella sua mente di bambino, si stanno organizzando per diventare un giorno pagine di storia. Della più splendida tra le storie possibili: la storia di Giovanni, per l’appunto.
Da qualche mese, la mattina si alza e va all’asilo. A volte è lui a svegliare la sveglia: “Svegliati, sveglia! Devo andare all’asilo!”. Dopo le voci amiche di casa sua, quella è la prima forma di società nella quale Giovanni inizia a diventare grande. Lì dentro avverte – tra sguardi fuggevoli, leggeri spintoni e fanciullesche diatribe – che non è da solo nel mondo: che la casetta dei giochi va spartita con altri bambini, che a tavola si mangia uno accanto all’altro, che nel mondo c’è posto per tutti e non solo per lui. Che ci sono i piccoli, i medi e i grandi. Una sera sono andato a trovarlo: il suo sguardo è la soglia di un abisso tant’è profondo, le sue parole sbilenche sono versi di una poesia, i suoi passi veloci sono una danza. Quando lo osservo, ho netta la percezione d’essere dinanzi alla vita che sta facendo le prove generali prima di uscire nel palcoscenico: siamo agli ultimi ritocchi prima delle danze ufficiali.
Lui è seduto sul divano, io m’avvicino con una foto che ho preso da sopra la grande stufa già accesa: è ritratto un gruppo di bambini piccoli, tutti in posa per la foto ufficiale d’inizio anno. La prima foto ufficiale della loro Armata Brancaleone: si sono incontrati a tre anni, traghetteranno assieme le scuole elementari e approderanno fin sul ciglio delle superiori: da là, in piena adolescenza, ognuno poi salperà verso le terre additate dai sogni.
Con la foto in mano prendo Giovanni in braccio e gli chiedo lumi su quei bambini: “Chi sono, come si chiamano?”. Lui si gratta la testa e, puntando il suo dito sopra la prima faccia, inizia: “Alberto, Marco, Filippo. Agnese, Federica, Marta. Tariq, Mohammed, Moustafa, Amar”. Li conosce tutti a menadito: di qualcuno mi dice anche nome e cognome, con quella dolcezza bambinesca che riveste le parole di una musicalità inconfondibile. Lo guardo e glieli faccio ripetere: non sono convinto d’aver capito bene tutte le sfumature di quei nomi. E lui, in cambio di una caramella, me li ripete con calma. Quando s’approssima agli ultimi quattro, lo guardo negli occhi mentre li pronuncia: “Tariq, Mohammed, Moustafa, Amar”. Detti così, con semplicità, spontaneamente come tutti gli altri prima di quelli: nessuno smorfia mentre li pronuncia. Non capisce la mia domanda: “Tariq, da dove viene?”. Mi guarda e mi dice: “Dal mio paese”. Io lo guardo e gli dico: “Sei sicuro, Giovannino?”. Lui scatta in piedi: “Abita lì” – e s’avvicina alla finestra per spostare la tenda e mostrarmi la luce accesa a casa di Tariq. Tre anni e mezzo lui, trentaquattro chi scrive: l’imbarazzo è tutto in quella tenda spostata, in quella luce rinfacciatami. Sono io che, a domanda, avrei risposto: “Tariq è marocchino, suo padre è un profugo, sua madre è arrivata in gommone. Purtroppo viene all’asilo con me”. Per Giovanni, invece, Tariq è semplicemente un bambino come lui, suo vicino di casa, suo compagno di giochi sull’altalena dell’asilo. Nessuna differenza.
Giovanni ha lo stesso nome di uno dei quattro che hanno scritto la storia del Bambino di Nazareth: fra meno di un mese sarà Natale. I nomi sono pesanti: tengono il peso delle storie di chi li ha portati prima di noi. Giovanni, tre anni, è il mio piccolo evangelista: m’ha assicurato che Dio nasce bambino perchè i bambini non capiscono cosa sono i confini, le etnie, le lingue: per loro sono tutti dello stesso paese. Sono gli adulti che ripassano con la vernice i confini, rinforzano i serramenti di casa, aumentano i giri di chiave. I bambini sono l’Avvento: il tempo che viene prima della Bellezza, il rumore dei passi che annuncia un incontro, il crepuscolo che avvisa del sorgere del sole. Sono ottimista per il futuro: ci sono i bambini. Un Dio Bambino: come loro. Loro come Lui.
(da L’Altopiano, 22 novembre 2014)