L’hanno scarabocchiato sul muro di una stazione: «L’attesa è il futuro che si presenta a mani vuote». Chi l’ha scritta ha dimenticato di mettere la firma di Michelangelo. Più che furto d’autore, penso che l’arte – nascosta in un verso, in una pagina, intervallo di una nota – non sia mai solo di chi l’ha creata ma diventi proprietà di chi la sente propria. Nascosta tra le righe di quel graffito rupestre, l’annunciazione mi è parsa chiara: l’importante non è mai la durata di un’attesa, ma l’oggetto. Ci sono mani che sono piene zeppe eppure avvertono una strana sensazione, d’essere mani vuote: distinguere una necessità urgente in un mare di richieste urgentissime sta diventando ormai un lavoro per cecchini esperti.
Il black-friday è la gioia del venerdì: i negozi sono da depredare, la materia fa impazzire, l’urgenza dell’acquisto manda a rotoli l’esigenza del necessario. E’ l’amarezza del sabato mattina: “Ho comprato roba che manco mi serviva: è che era troppo ghiotto quello sconto” dicono in tanti. L’attesa, invece, è il contrario della scontistica: la seconda ti fa apparire tutto a portata di mano, la prima ti chiede di aspettare, di investire, di risparmiare per riuscire, poi, a conquistare. C’è differenza tra il predatore e il conquistatore, tra l’acchiappare e il sedurre, tra l’attesa e la fretta: «Aspettare – scriveva Pavese – è ancora un’occupazione. E’ non aspettare niente che è terribile». E’ il significato stesso dell’Avvento che inizia oggi: la risposta lenta della liturgia alla velocità folle dell’acquisto. “Ma che senso ha l’Avvento? Sono cose sorpassate: più nessuno crede a queste storie fatte di novene e privazioni!” Può essere che a tanti non dicano più nulla i tempi liturgici. Non per questo sono tempi inutili: dicono ancora qualcosa, ovviamente, a chi li sa ascoltare. Capita sovente – e chi scrive ne è testimone – di alzarsi la mattina con addosso quella strana sensazione d’essere condannati a rincorrere il tempo: che sfugge, è sempre poco, è il nemico dei progetti più belli. Per costoro l’Avvento è un pungolo a rallentare, più un invito al gusto che all’ozio: per troppo lavoro, il rischio è quello di non saper più gustare nemmeno le cose belle che ci riescono, presi come siamo dall’essere già immersi nella prossima: «Le cose lente sono le più belle» dice il protagonista del film “Pane e tulipani”.
Le mani vuote sono il forziere più sicuro, come la porta aperta è sempre la più sicura: hanno spazio a disposizione, sono capaci di possibilità nuove, hanno il sorriso di chi è ancora capace di stupore. Le mani zeppe possono tornare a farsi vuote: svuotandosi. Ho sempre rappresentato l’attesa come quella vecchia damigiana mai usata che il nonno teneva in cantina. Un giorno gli dissero: “Portacela che te la riempiamo di vino”: era un grazie per un favore di potatura sbrigato. In quei giorni lo vidi tutto preso a sciacquarla: “Svuotala bene, che non rimanga niente in fondo. Così ci sta più vino” diceva alla nonna. Svuotare-tutto per riempire-di-più: ogni vuoto è la possibilità di un pieno.
Una damigiana piena non sa che farsene del vino regalato.
(da Il Mattino di Padova, 1 dicembre 2019)